Reviewer Elena Musiani - Università di Bologna
CitationIl volume curato da Martin Baumeister, Philipp Lenhard e Ruth Nattermann sceglie di usare l’innovativo approccio della «storia integrata», allo scopo di incorporare le differenze religiose e culturali, unendo la prospettiva della storia di genere a quella dell’ebraismo.
Il filo rosso che segue il volume collettaneo è quello dell’emancipazione, intesa qui in una doppia lettura: quella di genere e quella religiosa, in termini di integrazione sociale e culturale.
Diverse sono poi le prospettive di analisi per seguirne lo svolgimento: in primo luogo il tema della nazione e della costruzione nazionale, analizzato attraverso la lente dei due ultimi paesi europei ad aver raggiunto l’unificazione: l’Italia e la Germania. Una nazione letta nel tempo lungo di un XIX secolo, che si apre con la stagione napoleonica per chiudersi con il primo conflitto mondiale, in un momento in cui si perde l’afflato romantico, mazziniano, per declinare nel nazionalismo.
Un’età dell’emancipazione lunga, dunque, quella identificata nel volume, attraversata da temi quali educazione, eguaglianza, inclusione ed esclusione…
Due infine gli approcci metodologici scelti: da un lato quello delle tradizioni «marginali» e dei gruppi «informali» e dall’altro quello del rapporto tra famiglia e nazione sviluppato secondo le linee della più recente storiografia che, a partire dai lavori di Alberto Mario Banti, ha cominciato a declinare la nazione anche come «un fitto reticolo di nessi familiari, che lega una lunga catena di generazioni tra loro in senso longitudinale (tanto con gli avi quanto con posteri), in senso orizzontale (con i coevi, ovviamente), e fisicamente a un luogo, a una terra» (A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, p. 69).
Una definizione cui si unisce la lettura della patria intesa come rete parentale dove alla donna spettava un ruolo di primo piano, non come guida, ma come protettrice del grembo materno: la donna era allora la madre della patria e, in quanto madre, anche educatrice delle future generazioni.
Una linea di lettura che attraversa anche Rethinking the Age of Emancipation per rileggere il percorso di un Ottocento liberale e borghese, quando, i diritti di cittadinanza delle donne erano concepiti, vissuti e realizzati solamente all’interno della famiglia dove vivevano subordinate al padre o al marito costrette a ciò da una codificazione che rendeva di fatto impossibile considerarle come soggetto politico autonomo. In questa condizione le aveva relegate il codice napoleonico che privava la donna di tutti i diritti politici e le imponeva una totale sottomissione all’autorità maritale, concedendole libertà di azione unicamente all’interno della famiglia, in una dimensione squisitamente privata ed affettiva: come moglie e madre.
Poche erano le possibilità anche per le donne colte del XIX secolo di esprimersi sulla scena pubblica, il loro regno era quello del privato, della domesticità e della casa. E tuttavia in questi spazi in Italia e in Germania, ma in generale nell’Europa intera, le donne cominciarono a ritagliarsi ambiti di azione come i saggi qui raccolti evidenziano in maniera ricca e precisa. Uno spazio privato e domestico che fu culla di sociabilità, ma anche di educazione prima ed emancipazione poi. Anche in questo si potrebbe dire che i saggi qui presentati permettono di riprendere la narrazione iniziata nei salotti della Berlino nel passaggio tra Illuminismo e Romanticismo, dove forte era la presenza di salotti ebraici, gestiti da donne, che intendevano il riunirsi in società non più unicamente come forma di convivialità, ma come strumento per ottenere una emancipazione culturale e politica, che fuori dalle pareti domestiche non sarebbe stata loro concessa. Eredi dirette della cultura illuminista, ma già proiettare verso il classicismo e lo Sturm und Drang, le frequentatrici della casa di Moses Mendelssohn, ma anche di Markus ed Henriette Herz, sembrarono anticipare il tema della «doppia emancipazione». Senza dimenticare poi Rahel Levin Varnhagen. Prima donna non sposata a ricevere in società, Rahel coniugò l’amore per la cultura al desiderio di creare un modello femminile nuovo, che andasse oltre il rigido concetto prussiano, che vedeva la donna unicamente legata alla chiesa ed alla famiglia: «Rahel aveva diciannove anni quando, nel 1790, gli amici cominciarono a riunirsi da lei per trascorrere il tardo pomeriggio e la serata nella sua mansarda che guardava lo scorcio della Neue Friedrichstrasse … . Nessun luogo allora in Europa, a Berlino come a Vienna, offriva una così estetica e moderna extraterritorialità, un nuovo spazio di vita sottratto alle leggi della rappresentanza e dei ruoli sociali come a quelli della storia, uno spazio in cui si inventavano nuove forme della vita sociale» (in H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di una ebrea, Milano, Il Saggiatore, 1988, p. XI).
Queste e numerose altre prospettive si aprono con la lettura di questo volume, che unisce all’innovativa prospettiva metodologica, anche una ricca ricerca di fonti e documenti come dimostrano tutti i saggi in esso contenuti.