Reviewer Giovanni Bernardini - FBK-ISIG e European University Institute
CitationIl volume che Lise Butler, Lecturer presso la City University of London, ha dedicato alla lunga traiettoria professionale e politica di Michael Young meriterebbe due recensioni. Questo perché, da un lato, la caratura del protagonista, la sua poliedricità e la molteplicità delle influenze che egli ha esercitato sul secondo dopoguerra britannico sono difficilmente riassumibili in poche righe; dall’altro, merita attenzione anche la forma scelta dall’autrice, che si distacca sensibilmente e positivamente dai canoni spesso abusati del genere biografico. La stessa Butler avvisa lettori e lettrici sin dalle prime pagine sulla necessità di rivolgersi altrove per una ricostruzione minuziosa della vicenda personale di Young; lo stesso vale per una disamina approfondita della sua opera più nota, quell’ Avvento della meritocrazia, distopia semiseria pubblicata nel 1958, che sta conoscendo una rinnovata fortuna nel dibattito sulle crescenti disuguaglianze sociali e sul rapporto tra competenza e politica ai tempi del Covid-19. L’obiettivo di Butler, largamente raggiunto a giudizio di chi scrive, è piuttosto la ricostruzione sintetica del triangolo «politica-attivismo-scienze sociali» all’interno del quale Young ha inscritto per decenni il proprio pensiero e la propria opera. Apprendiamo così che un giovane Michael Young si trovò investito quasi casualmente di grandi responsabilità nel redigere il manifesto con cui il Labour si sarebbe presentato alle elezioni del 1945, per vincerle sorprendentemente e dare l’avvio a un nuovo corso della storia politica britannica. Senonché, fu proprio la vittoria laburista e la precoce delusione per il bilancio dell’azione di governo a spingere Young da un lato verso l’approfondimento accademico delle scienze sociali e dall’altro verso la promozione delle riflessioni prodotte da queste ultime come strumento per rendere le politiche sociali più flessibili e aggiornate. Così Young, dal suo dottorato in sociologia alla partecipazione a vari think tank fino alla fondazione del «suo» Institute for Community Studies, per tutti gli anni Cinquanta non risparmiò critiche ragionate e problematizzanti a tutti i caposaldi del laburismo postbellico: le aporie di un welfare troppo incentrato sulla figura del capofamiglia maschio lavoratore; l’insufficiente flessibilità di provvedimenti universalistici come il reddito di base; l’artificiosità delle politiche di pianificazione urbana; la scarsa attenzione dei policymakers al cosiddetto «gruppo primario», in primis la famiglia (vero Leitmotiv del lavoro di Young), e al suo ruolo fondamentale di socializzazione e di mediazione tra lo stato e l’individuo; le problematiche legate al concetto di «società del benessere», dalla promozione di un consumo più consapevole all’allarme per le perduranti sacche di povertà ed emarginazione trascurate dalla narrazione ufficiale. Sulla scorta di quanto prodotto, Young fu parte integrante (sebbene non organica) del processo di autoesame e rinnovamento del Labour che avrebbe portato il partito di nuovo al governo negli anni Sessanta. In quel contesto, il sociologo fu chiamato a guidare il neonato «Social Sciences Research Council», incaricato di promuovere economicamente la diffusione e il radicamento delle scienze sociali in Gran Bretagna. Sebbene Young ne avesse invocato la creazione sin dalla fine degli anni Quaranta, per tutta la durata del suo mandato egli non rinunciò a predicare un ruolo più attivo per il nuovo organismo nel consigliare e coadiuvare il governo nelle sue ambiziose politiche di programmazione e di riforma sociale; sebbene questo abbia portato a più frustrazioni che successi, come puntualmente Butler fa notare, nondimeno il ruolo avuto da Young lo lega indissolubilmente a quell’«epoca d’oro» delle scienze sociali britanniche.
Quanto alle scelte dell’autrice, accennate inizialmente, la già densa e complessa vicenda di Young è restituita attraverso la sua contestualizzazione nel fitto reticolo intellettuale e scientifico in cui il pensiero e l’attività del protagonista si è evoluta attraverso i decenni, con un processo di reciproca influenza che Butler ricostruisce con grande competenza. In sostanza, il libro fa uso della personalità di Michael Young «come punto d’accesso per rivelare una storia parziale dei network e delle intersezioni che hanno legato le scienze sociali e i circoli di policy-making nei due decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale». Una storia plurale, dunque, della lotta per l’affermazione disciplinare delle scienze sociali e della loro rilevanza per comprendere, descrivere e governare una società in rapida trasformazione; una lotta volta innanzitutto, come sottolinea ripetutamente il volume, a sottrarre le politiche sociali al monopolio del più tradizionale approccio materialistico ed economicistico, attraverso la presa in considerazione di aspetti difficilmente quantificabili e monetizzabili ma nondimeno fondamentali per il reale benessere della popolazione. Una lotta costellata da successi e fallimenti, così come da contraddizioni e inversioni di rotta, che Butler non manca di riscontrare anche nella parabola personale di Young. Nondimeno, la vicenda narrata merita un posto di assoluto rilievo nella storia britannica e più in generale in quella del secondo dopoguerra, quando l’apogeo dello stato si accompagnò pressoché in tutto il cosiddetto «Primo Mondo» a una sostanziale crescita delle competenze scientifico-disciplinari ritenute necessarie alla sua gestione. Per tale ragione, il libro di Butler rappresenta una lettura di sicuro interesse e una fonte di ispirazione per lavori simili in altre realtà nazionali e, in prospettiva, in chiave europea e atlantica.