Reviewer Elisa Marazzi - Università of Newcastle / Università di Milano
CitationQuali occasioni avevano i lettori italiani di età moderna di entrare in contatto con la parola stampata? E soprattutto, di quali strumenti disponevano per capire ciò che leggevano? Le vie dei libri, come le intende Marina Roggero, non sono soltanto le strade e i sentieri percorsi dagli ambulanti di antico regime che smerciavano materiale a stampa, rendendolo disponibile anche ai lettori del popolo. La produzione e diffusione dei cosiddetti generi di larga circolazione è infatti una sola delle molte anime di questo volume, che ha come fine ultimo quello di indagare non tanto le fasi a monte dell’acquisizione dei libri, quanto piuttosto la loro fruizione e, soprattutto, comprensione da parte dei lettori. Tra questi ultimi, Roggero individua, come oggetto della sua analisi, coloro che avevano un bagaglio culturale ridotto: generalmente i lettori che appartenevano ai ceti sociali più bassi, ma anche le donne di ogni estrazione sociale. Una sfida non semplice, e delle cui insidie l’autrice è ben consapevole, basti pensare alle osservazioni che emergono più volte nel testo sull’«inabissamento» dei fogli volanti e dei libretti letti e riletti, che però non sono giunti sino a noi (pp. 77-80). Consapevolezza che conduce Roggero a dichiarare di aver spesso preso in considerazione coloro che, tra i meno colti, erano comunque i più istruiti (p. 10).
I percorsi compiuti da costoro nell’avvicinarsi alla parola scritta erano tutt’altro che lineari. A questo proposito è interessante il fatto che il titolo del volume, sebbene utilizzando un’ellissi, ponga i libri al centro dell’azione: sono i libri a percorrere le vie che li conducono ai lettori, non tanto – o non sempre – i lettori ad adoperarsi attivamente per entrare in possesso dei materiali a stampa. Il titolo comunica dunque quanto l’incontro dei lettori con la parola scritta potesse essere casuale, mediato o anche collaterale – per esempio nei casi del canto, dell’ascolto, della fruizione di esibizioni di cantastorie o artisti di strada. La rilevanza di queste forme di fruizione emerge a più riprese nel volume, nonostante il rapporto tra la dimensione orale e quella della scrittura non sia uno degli oggetti principali della ricerca.
Ma quali erano, in definitiva, i testi che i lettori del popolo avevano effettivamente occasione di leggere? Due sono le grandi categorie prese in considerazione: anzitutto stampati a carattere devozionale, che servivano spesso da supporto per l’apprendimento della lettura, ma erano apprezzati anche come letture private, dalle molteplici funzioni, che non escludevano quelle apotropaiche. La seconda tipologia è quella delle letture di svago, che comprendeva una vasta gamma di materiali: i più semplici, talora stampati su fogli singoli, o in piccoli volumetti ricavati da un solo foglio di stampa, contenevano testi evocativamente definiti «storiame» dagli addetti ai lavori. Ma, nella sua ricerca di forme letterarie «mezzane», Roggero prende in considerazione anche i romanzi di età moderna e il «teatro da leggere». Passa dunque in rassegna queste categorie e, al loro interno, alcuni selezionati esempi: dalle riscritture burlesche dei romanzi cavallereschi del Cinquecento ad opera di Giulio Cesare Croce ai fogli volanti che riportavano «rudi vicende di delitti e castighi» (p. 124); dal Calloandro di Giovanni Ambrosio Marini, tra i più fortunati esempi del romanzo seicentesco italiano, alle commedie ridicolose, definite da Roggero uno dei pochi esempi autoctoni di produzione letteraria mezzana. Trattando questi e altri esempi l’autrice insiste da una parte sull’ampio ventaglio dei possibili livelli di fruizione e comprensione da parte di lettori popolari dalle competenze culturali variabili, e dall’altra sulla duttilità degli stampatori nel rispondere alle esigenze del mercato, a loro volta influenzate dall’attenzione dell’autorità religiosa nei confronti della circolazione della parola scritta.
Le conseguenze del controllo posto in atto, nella Penisola, dalla Chiesa post-tridentina, pur non essendo al centro degli interessi di questo lavoro, che piuttosto recepisce le recenti ricerche sul tema, finiscono per costituire una sorta di Letimotiv del volume. È la diffidenza nei confronti di testi nuovi, che possono avere contenuti rischiosi dal punto di vista dottrinale o anche solo morale, a far sì che buona parte degli stampatori di generi di larga circolazione finisca per concentrare i propri sforzi su un repertorio immobile di testi «sicuri». È la preoccupazione nei confronti dell’accesso al testo religioso in volgare, e per estensione, all’istruzione del popolo alla lettura in lingua italiana, che influenza le modalità di insegnamento destinate ai ceti sociali più bassi.
Evoluzione delle pratiche educative e trasformazioni dell’offerta editoriale e letteraria sono due dei tre filoni di indagine che l’autrice dichiara di aver posto al centro del proprio lavoro (p. 171). Il terzo filone, ossia il lento cambiamento dei modelli linguistici per la comunicazione, costituisce forse l’aspetto più innovativo del volume e, a chi scrive, sembra quasi costituire un secondo Leitmotiv dell’opera. La presenza ingombrante del latino nei percorsi scolastici a disposizione dei ceti sociali più bassi a partire dal Cinquecento sfociava infatti in un inevitabile divario tra il riconoscimento del codice alfabetico – appreso sulle tavole dell’Abc e praticato sulle preghiere in latino – e l’effettiva comprensione di materiali scritti. Un ostacolo non da poco alla fruizione di testi anche semplici, e che, nel corso del volume, vediamo ripercuotersi a cascata non solo sulle esperienze di fruizione e appropriazione del testo scritto, ma anche sulle scritture dei professionisti delle lettere. Per quanto la questione linguistica sia un aspetto tutt’altro che trascurato dagli storici, era mancata sinora una riflessione su come i percorsi di acquisizione di una lingua comune diversa dal latino e dal dialetto – altre vie tortuose lungo le quali, in età moderna, si avventuravano gli italiani di tutti gli strati sociali – abbiano dato forma a molte caratteristiche della nostra letteratura e, più in generale, della società.
La cronologia scelta, che va dal Cinquecento al Settecento, privilegia il lungo periodo. Pur non trascurando gli innegabili cambiamenti avvenuti nel secolo dei Lumi (epoca alla quale sono dedicati grossomodo tre dei sette capitoli del volume), essa fa emergere con forza «la resilienza del sistema letterario ed educativo che caratterizzava la nostra penisola» (p. 10). La fatica di cambiare metodi e pratiche di insegnamento descritta nel capitolo quinto, capitolo di raccordo tra i secoli precedenti e il Settecento, rende conto di quanto il progressivo ingresso dell’italiano nei processi di alfabetizzazione si sia scontrato in realtà con il peso inerziale della tradizione. Ne risultò un aumento del divario tra livelli diversi d’istruzione che vide i meno colti rimanere privi di strumenti interpretativi che consentissero un reale accesso alla parola scritta.
Pur concentrandosi sul caso italiano, l’autrice non manca di tracciare frequenti confronti con l’estero, nella convinzione che il taglio comparativo consenta di mettere a fuoco le specificità della Penisola. I raffronti più frequenti vengono istituiti con paesi culturalmente vicini quali Francia e, soprattutto, Spagna. Qui si possono riscontrare analogie – ad esempio il successo editoriale di un genere agiografico contaminato da elementi fantastici, che aveva le proprie ragioni nell’obiettivo di allontanare il popolo da letture di svago considerate più dannose. Ma non mancano sostanziali differenze, come la rilevanza eccezionale, in Spagna, di un pubblico teatrale che stimolò, da parte degli stampatori, iniziative editoriali in grado di diffondere ulteriormente i testi – e la lingua – dei drammaturghi. Il caso inglese, invece, è più spesso chiamato in causa per sottolineare il divario tra i lettori italiani e coloro che potevano contare, per molteplici ragioni, su una tradizione di accesso diretto alla parola scritta, con conseguenze evidenti su capacità di lettura e comprensione, nonché sull'ampiezza dell’offerta letteraria ed editoriale. Del resto l’autrice è recentemente intervenuta per invitare alla ridiscussione degli esiti di studi che hanno talora condotto all’appannamento di quelle «frontiere religiose» [1], il cui peso nel plasmare differenze anche sostanziali nell’accesso alla cultura scritta non è trascurabile, come ella ribadisce a più riprese in questo volume.
È impossibile rendere giustizia alla varietà e complessità dei temi trattati da Roggero nel suo «vagabondare» – come l’autrice stessa lo definisce – tra storia dell’educazione, storia della lingua e storia del libro, in un lavoro in cui si scorgono i risultati di una densa carriera di studi, integrati da carotaggi mirati su particolari testi e documenti, riletti alla luce della più recente storiografia internazionale. I nuclei tematici centrali sono arricchiti da riflessioni su anonimato e plagio, strategie editoriali, evoluzione dei generi letterari, mercato dei libri educativi, comunicazione scientifica e molto altro. Concludendo preme però insistere ancora una volta sulla portata innovativa dell’aver incluso in questa ricerca una riflessione sulle pratiche linguistiche e comunicative adottate dai gruppi sociali oggetto dello studio. Nel mosaico di entità e identità locali della Penisola, la lingua, insieme alla religione, fungeva da poderoso collante (p. 47), e tuttavia lo scarto tra la lingua aulica della produzione letteraria – anche di intrattenimento – e la lingua d’uso costituiva un grande ostacolo per tutta una serie di processi che, altrove in Europa, procedevano senza intoppi: non solo l’aumento, in parallelo alla maggiore frequenza scolastica, del numero dei lettori in grado di comprendere testi anche complessi, ma anche, per citare un altro esempio lampante e con ricadute evidenti fino a Novecento inoltrato, l’abilità degli scrittori di professione di padroneggiare una scrittura «mezzana» in grado di dare vita a testi nuovi e più accessibili (p. 149).
La mole di materiale discusso può talora distrarre dal ritratto minuzioso che Roggero traccia del «lettore incerto», come l’autrice definisce, concludendo il volume, il lettore italiano meno colto, diffidente nei confronti delle novità e poco convinto dei propri mezzi (p. 282). Una figura chiave per la comprensione di fenomeni di lunga durata che sfociano nell’età contemporanea e persino nel presente. In conclusione, quello che Roggero ci offre, seppur nell’understatement che spesso caratterizza alcuni storici della sua generazione, è un importante tassello della storia dell’analfabetismo funzionale, un fenomeno quasi costitutivo della storia del nostro paese.
[1] M. Roggero, Alfabetizzazione, libri e frontiere religiose. Interpretazioni da ridiscutere, in «Studi storici» 59, 2018, 3, pp. 667-688.