Reviewer Gerald J. Steinacher - University of Nebraska-Lincoln
CitationSecondo Michel Foucault: «... Suppongo, senza peraltro esserne certissimo, che non ci siano molte società in cui non esistono narrazioni salienti che si raccontano, si ripetono, si fanno variare; formule, testi, insiemi ritualizzati di discorsi che si recitano, secondo circostanze ben determinate; cose dette una volta e che si conservano, perché vi si presagisce qualcosa come un segreto o una ricchezza. ...»[1]
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio attacco nei confronti di monumenti e simboli del razzismo e del colonialismo, o di monumenti e simboli che vengono percepiti come tali. Alcuni monumenti di Cristoforo Colombo, di generali dell'esercito sudista e di un re belga sono stati abbattuti o in procinto di essere abbattuti, oppure sono oggetto di manifestazioni, controversie e attacchi graffitari. A prescindere dalla propria personale opinione riguardo a questi monumenti, una cosa è indiscutibile: i monumenti sono importanti «luoghi della memoria». Fu lo storico francese Pierre Nora a coniare questo termine nei primi anni Ottanta. Con esso si intende «qualsiasi punto focale pubblico dei discorsi sulla memoria collettiva, mediante il quale si negoziano affiliazioni di gruppo e concezioni identitarie» (p. 25). Le narrazioni del passato non sono fisse e determinate, bensì sono costruite, vengono negoziate e, come è attualmente sotto gli occhi di tutti, sono anche soggette a cambiamenti imposti dalla società.
Il volume dello storico svizzero Sebastian De Pretto, Im Kampf um Geschichte(n): Erinnerungsorte des Abessinienkriegs in Südtirol risulta perciò particolarmente attuale per le tematiche affrontate. De Pretto prende in esame la «rilevanza dal punto di vista della memoria culturale della guerra d'Etiopia per il Sudtirolo postbellico», come sottolinea lui stesso (p. 20). È necessario fare una premessa: la memoria collettiva della guerra d'Etiopia è stata strumentalizzata fin dall'inizio da tutti gli attori della guerra di confine in atto in Alto Adige/Südtirol.
Nonostante sia stato un avvenimento importante di per sè, la campagna mussoliniana di conquista dell'Etiopia non ha ricevuto molta attenzione per parecchio tempo, né da parte dell'opinione pubblica italiana né nell'ambito della storia contemporanea. Nell'ottobre del 1935 le truppe italiane attaccarono l'Impero in Africa orientale e solo dopo l'uso massiccio di armi chimiche a base gassosa fu possibile spezzare la tenace resistenza etiope. Nel maggio 1936 gli italiani conquistarono la capitale Addis Abeba e Mussolini proclamò con il consueto forte pathos che lo contraddistingueva la «riapparizione dell'Impero sui colli fatali di Roma». I crimini commessi dalle unità militari fasciste italiane in Etiopia furono gravi e numerosi ed assunsero in parte il carattere di un genocidio. Questi crimini sono stati trattati e analizzati approfonditamente da diversi storiche e storici negli ultimi decenni[2].
Fra i primi ad affrontare questo tema spinoso, rompendo un silenzio durato a lungo, possiamo annoverare anche il documentario di Ken Kirby Fascist Legacy, che fu trasmesso dalla BBC l'8 novembre 1989 e suscitò feroci proteste in Italia. Il film mette in luce i crimini di guerra commessi dalle Forze Armate italiane in Africa, Jugoslavia, Grecia e Spagna[3].
Come tuttavia mette subito in chiaro De Pretto, nemmeno il numero crescente di studi sul tema ha realmente scalfito l'immagine stereotipata e cara ai più del buon colonialismo (e fascismo) italiano, che non conobbe né razzismo né brutalità: «Alla fine dei conti, in Italia regna ancora un silenzio avvolto nel pregiudizio a sfondo razzista per quanto riguarda la guerra d'Etiopia. Si è, pertanto, ancora lontani dal pervenire a una rappresentazione del passato finalmente decolonizzata» (p. 320). Questa ignoranza lascia sorpresi, innanzitutto perché la campagna d'Etiopia è stata piuttosto importante per la storia italiana più recente, senza dimenticare, inoltre, che proprio nel contesto di questa campagna militare è stato creato l'asse Berlino-Roma. Ancora più evidenti sono i luoghi della memoria della guerra d'Etiopia presenti in diverse città italiane (nomi di piazze, strade e monumenti con un richiamo all'«Abissinia», la denominazione tipica del periodo coloniale europeo). Perfino in Alto Adige/Südtirol la guerra d'Etiopia ha lasciato tracce di memoria culturale, tracce che vengono approfondite e analizzate da De Pretto.
Con la presa del potere da parte del fascismo nel 1922 divenne necessario italianizzare in maniera estesa le terre di confine conquistate. Facevano parte di questo processo di italianizzazione sia i toponimi, sia i simboli e le rappresentazioni del potere. In Alto Adige/Südtirol, il «Monumento alla Vittoria» e il bassorilievo di Mussolini visibile sull'edificio dell'Agenzia delle Entrate a Bolzano sono i monumenti più noti (e più controversi) di quell'epoca[4]. Come sottolinea De Pretto, l'Alto Adige/Südtirol fu un tassello importante dell'asse nord-sud della politica fascista negli anni Trenta, e allo stesso tempo uno dei possibili obiettivi nel mirino delle rivendicazioni territoriali tedesche e austriache. I paesi confinanti a nord non avevano mai veramente accettato l'annessione dell'Alto Adige/Südtirol all'Italia dopo la Prima guerra mondiale. I sogni imperiali dell'Italia fascista e il conflitto di interessi con la Germania emersi a metà degli anni Trenta sono due delle componenti che legano la guerra d'Etiopia e la «questione altoatesina». La propaganda fascista stessa creò una connessione fra i due temi presentando l'Alto Adige come la zona di confine più settentrionale e l'Etiopia come la zona di confine più meridionale dell'Impero mussoliniano. Sulla base di questa associazione si doveva simbolicamente costruire un «ponte dell'imperialismo fascista tra l'Africa orientale e il Sudtirolo» (p. 55). Come ci mostra in maniera molto dettagliata De Pretto, questo può essere rappresentato in maniera ottimale dal monumento degli Alpini a Brunico. Questo monumento fu eretto in onore delle truppe da montagna italiane nel 1937 e inaugurato l'anno successivo. Con esso si voleva onorare gli Alpini per il loro «eroismo», mostrato non solo durante la guerra in Etiopia, ma anche durante la Prima guerra mondiale contro l'Austria. Per i militanti sudtirolesi degli anni Sessanta e Settanta, il monumento divenne ben presto un obiettivo ideale per attacchi terroristici, e pertanto fu fatto saltare in aria più volte. Per molti italiani, invece, si trattava di un monumento alla propria storia, alla storia degli italofoni nella regione, nonché di un punto di riferimento per le proprie rivendicazioni. Per molti altoatesini (di madrelingua tedesca e ladina), al contrario, rappresentava soprattutto un simbolo dell'ingiustizia e dell'arroganza italiana. Mentre i politici italiani di destra deponevano corone davanti al monumento alpino, gli Schützen sudtirolesi organizzavano ripetutamente marce di protesta contro i lasciti scultorei dell'epoca di Mussolini all'insegna delle parole d'ordine «Per il Tirolo – contro il fascismo». Al contrario, il ruolo di perpetratori di molti sudtirolesi di madrelingua tedesca durante il nazionalsocialismo non è mai stato realmente affrontato dagli Schützen, che pure sono piuttosto attivi su altri temi politici.
In sintesi, il libro di De Pretto è un ulteriore tassello importante per una storia regionale europea critica, e non solo per quanto riguarda questo argomento[5]. L'analisi dell'autore presentata in questo lavoro, pubblicato a partire dalla sua tesi di dottorato discussa presso l'Università di Lucerna, è formalmente impeccabile, molto equilibrata nei contenuti e dimostra anche che il giovane storico ha ottime capacità di reperire e selezionare le fonti. Sarebbe molto importante, nonché auspicabile, che venisse pubblicata un'edizione italiana di questo ottimo lavoro di De Pretto. La traduzione in italiano costituirebbe un altro importante contributo allo scambio reciproco e alla comprensione delle diverse narrazioni del passato più recente dell'Alto Adige/Südtirol e dei suoi luoghi della memoria.
Traduzione italiana di Felicita Ratti
[1] M. Foucault, L'ordine del discorso, Torino, Einaudi 1970, pp.18-19.
[2] Giorgio Rochat e Angelo Del Boca furono tra i pionieri che si dedicarono a questo argomento negli anni Sessanta e Settanta affrontandolo dal punto di vista delle scienze storiche. È nato poi un crescente interesse nei confronti del colonialismo italiano a partire dagli anni Novanta. Si veda ad esempio N. Labanca, Oltremare: Storia dell'espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002.
[3] Si veda R. Carroll, Italy's Bloody Secret, in «The Guardian», 25 giugno 2001.
[4] Cfr. G. Steinacher, Fascist Legacies: The Controversy over Mussolini's Monuments in South Tyrol, in «European Yearbook of Minority Issues», 10, 2013, 1, pp. 647-666.
[5] Cfr. G. Steinacher (ed), Tra Duce, Führer e Negus. L'Alto Adige e la guerra d'Abissinia 1935-1941, Trento, Temi, 2008. Si vedano anche i lavori più recenti sull'argomento: M. Wurzer, «Nachts hörten wir Hyänen und Schakale heulen» Das Tagebuch eines Südtirolers aus dem Italienisch-Abessinischen Krieg 1935-1936 (Erfahren - Erinnern - Bewahren. Schriftenreihe des Zentrums für Erinnerungskultur und Geschichtsforschung, 6), Innsbruck, Wagner Verlag, 2016; A. Di Michele, Abessinien und Spanien: Kriege und Erinnerung/Dall‘Abissinia alla Spagna: guerre e memoria, «Geschichte und Region/Storia e Regione» 25, 2016, 1 (numero monografico); R. Pergher, Mussolini‘s Nation-Empire: Sovereignty and Settlement in Italy’s Borderlands, 1922-1943, Cambridge, Cambridge University Press, 2017.