Reviewer Renato Mazzolini - Università di Trento
CitationMolte opere storiografiche hanno analizzato il ruolo svolto dal concetto di «razza» nel corso dell’Ottocento. Esso è stato utilizzato non solo per distinguere e classificare le popolazioni umane della Terra da un punto di vista naturalistico, ma anche come nozione storiografica sia per spiegare grandi mutamenti storici e conflitti tra popolazioni, sia nella creazione di identità nazionali quali quella inglese, francese, tedesca e nord-americana. Scarsa attenzione, invece, è stata rivolta all’uso di tale termine nell’Italia dell’Ottocento e del primissimo Novecento. Di qui la rilevanza della monografia di Salvatore Rigione che, sulla base di una scrupolosa analisi di numerosi testi di quel periodo, è giunto a mostrare come la nozione di «razza» abbia costituito uno sfondo teorico di legittimazione del colonialismo italiano di fine Ottocento. L’opera di Rigione è una storia delle idee fortemente ancorata, tuttavia, sia alle vicende politiche del tempo sia agli indirizzi culturali prevalenti. Il volume è diviso in due parti: la prima copre il periodo che va dalla fase preunitaria agli anni Settanta dell’Ottocento, mentre la seconda comprende l’ultimo trentennio del XIX secolo fino ai primissimi anni del Novecento.
L’autore prende in considerazione la ricorrenza e il significato del termine «razza» negli scritti di numerosi autori tra i quali Gioberti, Mazzini, Balbo, Mancini e Luigi Campo Fregoso, nella prima parte, e Giovanni Bovio, Niccola Marselli, Raniero Paulucci di Colboli, Lombroso, Mantegazza e Morselli nella seconda.
La prima parte del volume riempie, a mio avviso, un importante vuoto storiografico relativo alla diffusione del termine «razza» nella cultura italiana della prima metà dell’Ottocento. In un periodo in cui gli storici italiani ponevano in luce come nell’Italia pre-romana la penisola fosse stata abitata da stirpi diverse e come, dopo la caduta di Roma, essa fosse stata invasa da razze diverse, qui interessa segnalare la posizione di Giuseppe Mazzini. Questi, infatti, già nel 1833 sostenne contro i federalisti che nell’Italia a lui coeva non esistesse né una pluralità di razze, né conflittualità tra le razze. Inoltre, ritenne che in Italia si fosse verificato un «convegno di tutte le razze» e che esse si fossero cancellate tra loro: «vinti e vincitori si fusero in un solo popolo. Le risse si quietarono nella tomba». Mazzini ribadì il concetto nel 1839 attribuendo la fusione delle razze alla «potenza assorbente dell’elemento italiano» per la quale «razze così opposte come i Goti e i Longobardi non poterono resistervi più d’uno o due secoli».
Analogamente a Mazzini anche Vincenzo Gioberti vide nella mescolanza delle razze la caratteristica principale della popolazione italiana per cui la considerava la più cosmopolita delle nazioni. Per lui gli italiani costituivano una comunità di fede, di missione e di destino provvista di un primato morale e civile che le derivava anche dall’antico «ingegno pelasgico», ovvero dal «tipo più perfetto dell’ingegno caucasico». Negli anni Quaranta dell'Ottocento, Gioberti formulò una visione bio-politica della nozione di «razza» enfatizzando la «disparità fisiologica delle razze» e la superiorità delle popolazioni bianche e caucasiche a discapito di quelle di colore. Inoltre sostenne che agli Stati italiani spettasse il compito di stabilire, come gli altri europei, delle colonie con il duplice scopo di civilizzare ed evangelizzare i popoli colonizzati.
Nella seconda parte del volume l’autore mostra come tra gli intellettuali italiani la concezione della razza sia stata più ibrida e complessa rispetto a quella di numerosi autori stranieri. L'idea di una superiorità morale o di una superiorità naturale delle popolazioni italiane venne infatti sostenuta solo da alcuni e non divenne mai un patrimonio culturale collettivo. L’idea di nazione, invece, perse il suo valore universalistico per trovare applicazione esclusivamente al contesto europeo. Da questo punto di vista è sintomatica la parabola del giurista e uomo politico Pasquale Stanislao Mancini. Egli fece parte di quella diaspora di intellettuali meridionali che si stabilirono a negli anni Cinquanta a Torino, città nella quale ricoprì la prima cattedra di Diritto pubblico esterno e internazionale. Nella celebre pre-lezione del 1851 egli proclamò quale verità fondamentale del diritto delle genti il principio di nazionalità, di cui la razza, «espressione di un’identità di origine e di sangue», costituiva una componente essenziale. Un principio più volte ribadito negli anni successivi e atto a legittimare giuridicamente l’unificazione della penisola. Tuttavia, quando tra il maggio del 1881 e il giugno del 1885 egli ricoprì la carica di ministro degli Affari Esteri, non mancò di stipulare nel 1882 il trattato della Triplice alleanza in stridente contrasto con gli ideali risorgimentali e – seppure con la massima cautela – di favorire il primo insediamento coloniale italiano con l’acquisto della baia di Assab da parte dello Stato italiano e la presa di Massaua. Quest’ultima si poneva in flagrante antitesi al principio universalistico di nazionalità, senonché l’argomento del giurista era che tale principio valesse per i popoli civili e non «per tribù selvagge e semi-barbare». Il colonialismo era, secondo Mancini, una forma di «tutela degli incapaci» e quindi il principio di nazionalità perdeva il suo carattere universalistico acquisendo invece una valenza esclusivamente eurocentrica. Nel dibattito parlamentare del 7 maggio 1885 Ruggero Bonghi osservò con ironia che non solo le popolazioni dell’Abissinia e del Sudan non erano barbare, ma anche che avevano capito «che gli Stati europei hanno un solo e buon mezzo per incivilirli: quello di annientarli». Nonostante la presa di posizioni di uomini politici come appunto Bonghi, il razzismo predominò nella cultura italiana di fine Ottocento divenendo una forte premessa ideologica all’espansionismo coloniale in Africa. Quanto alla diffusione delle classificazioni razziali nell’Italia dell’Ottocento rimane, a mio avviso, ancora da analizzare l’opera dei naturalisti italiani e, soprattutto, la sua propagazione nella manualistica scolastica e tra gli storici della seconda metà del secolo.