Reviewer Isabella Lazzarini - Università degli Studi del Molise
CitationNella complessa e illuminante introduzione di questo importante volume, Franco Benigno e Igor Mineo dichiarano che L’Italia come storia «si occupa del modo in cui è cambiato il discorso storico sull’Italia nei decenni inquieti compresi fra la conclusione del 'secolo breve', nel 1989, e i primi due decenni del nuovo millennio» (p. 7). Non la storia d’Italia, dunque, ma il discorso sulla storia dell’Italia come entità unitaria: l’Italia cioè insieme come narrazione e interpretazione, in un momento, la nostra contemporaneità, in cui il «canone nazionale» (inteso, specificano i curatori, come «un sistema di rappresentazione della storia di un determinato stato-nazione [o di una determinata nazione destinata a farsi stato] che abbraccia una prospettiva di lungo periodo», p. 7 – il corsivo è nell’originale) conosce in generale una fase di declino, o, si potrebbe sospettare, di ennesima re-invenzione su basi tanto diverse dalla tradizione da risultare irriconoscibili quando non inaccettabili. La prospettiva di lungo periodo di cui si tiene conto ha il suo baricentro nel momento del primo compimento della costruzione di tale sistema di rappresentazione (e quindi, per l’Italia, a grandi linee un’ottantina d’anni, fra il fatidico 1860-1861 e il 1945-1946), ma si dirama, nella fase di definizione dei vari e diversi building blocks delle possibili storie d’Italia, a monte sino a un tardo medioevo risolto nel Quattrocento, e a valle nei complessi processi post-bellici di costruzione dell’Italia repubblicana e del suo bisogno – dei suoi bisogni – di rappresentazione. L’idea di fondo è che nell’Ottocento (con precorrimenti, naturalmente, ma più episodici), a partire da una serie di «materiali» storici e storiografici e in parallelo con la costruzione della nazione, di quest’ultima si viene a costruire anche il racconto, in un complesso processo di influenze reciproche, di selezione e di esclusione. Tale processo, sostengono i curatori, avviene in modi diversi, ma attraverso la combinazione di una serie tutto sommato ridotta e analoga di elementi costitutivi, nell’intero continente europeo. In questo senso, non esisterebbero «eccezionalità» – né italiane, né altre – ma piuttosto differenze all’interno di un paesaggio comune di costruzione identitaria.
I punti di riferimento di questo ambizioso sforzo di duplice lettura – delle storie sull’Italia, ma anche, inevitabilmente, della storia d’Italia – sono da un lato la ciclica riflessione innescata dagli anniversari della «fondazione» (1911, 1961, 2011: intorno a quest’ultimo, spiegano i curatori, nascono le prime discussioni all’origine del progetto, interne alla redazione di «Storica»), dall’altro il quadro disegnato da uno in particolare dei due grandi sforzi interpretativi sulla storia d’Italia del secondo dopoguerra, immaginato già tra il 1949 e il 1951, ma in concreto messo in opera, e non casualmente, a partire dal 1966 (con le prime uscite tra il 1972 e il 1976), la Storia d’Italia Einaudi (mentre l'altro è la Storia d’Italia UTET, sotto la direzione generale di Giuseppe Galasso, che prese le mosse nel 1978). La progressiva scomparsa della volontà intellettuale di misurarsi, dopo questi due grandi progetti, con una storia complessiva dell’Italia, combinata con il tornante rappresentato nella recente storia repubblicana dagli anni 1992-1994 e nella recente storia europea dalla costruzione politica della 'nuova' Europa successiva al 1989, rendono necessaria una riflessione attenta sul «racconto nazionale italiano», sui suoi caratteri, i suoi angoli ciechi, il suo venire meno, il suo riaffiorare, per interrogarsi tanto sulle modalità e sul senso euristico di un simile sforzo (per l’Italia, ma non solo) quanto sul suo collocarsi in un comune contesto europeo. Il volume dunque, dominando da vari punti d’osservazione una mole di studi storici ormai davvero imponente, si muove sulle tracce di questo fascio di fenomeni – le presenze e le assenze di studi e di riflessioni – scomponendo il racconto della nazione in sette temi fondativi (Stato, Chiesa, lingua e letteratura, intellettuali, Risorgimento, famiglia, fascismo). L’analisi di ciascuna di queste regioni tematiche attorno alle quali si sono coagulati nel tempo letture diverse e usi diversi, è affidata a una coppia di autori/autrici il cui accostamento di volta in volta si compone in modi complementari od offre, dello stesso fenomeno, punti di vista diversi o, come nei due saggi sulla famiglia di Alessi e Groppi, in parte opposti. I curatori, nell’introduzione, sono attenti a precisare tanto la lunga gestazione di questo libro, che in parte spiega (senza pretendere di giustificarla) qualche incongruenza, quanto le assenze, delle quali, sempre nell’introduzione, si cerca peraltro di tenere conto.
Tema portante dell’intero arazzo è la scomposizione delle ragioni e delle modalità nelle quali il caso italiano è stato immaginato e letto come eccezionale: vale a dire la irriducibilità della penisola e/o delle sue componenti territoriali, ribadita dalle correnti storiografiche e intellettuali più diverse nei diversi momenti storici in cui costruire una narrazione d’Italia è sentito come necessario, alla parabola degli stati-nazione europei, di volta in volta in ragione di un (auto)riconosciuto primato o – più frequentemente – di una connaturata, pressoché naturale e inevitabile decadenza. Il filo rosso di questa presunta «eccezionalità», il modello che fa da sfondo a queste ricostruzioni, è la nozione della «modernità» (necessaria, raggiunta, precorsa, mancata) da raggiungersi o raggiunta nella forma dello specifico stato-nazione di cui si raccoglie e ricostruisce il racconto. Attraverso le diverse sezioni del libro, questo filo elusivo (e il conseguente posizionarsi del discorso sulla storia dell’Italia come stato-nazione in un mainstream o al di fuori di esso), porta alla luce i due piani complementari dell’utilità euristica dell’idea di modello (laddove le eccezioni si moltiplicano, forse è il modello a dover mutare, o il binomio modello/eccezione a risultare insufficiente) e del rapporto fra le diverse narrazioni – filiazioni, genealogie, sensi unici o multipli – nell’individuare, definire, analizzare le operazioni di scrittura o riscrittura della memoria e dell’identità nazionali.
La questione nelle sue sfaccettature è cruciale e l’ambizione a portarla alla luce nelle sue componenti fondamentali risulta intellettualmente importante e necessaria. Innanzitutto, ovviamente, per una comprensione più limpida della costruzione di un canone italiano, attuata grazie a una presa di posizione critica rispetto a un panorama storiografico ricchissimo in cui ai diversi filoni di analisi storica corrisponde un assai minore sforzo complessivo di messa a fuoco dei fili conduttori del discorso intellettuale che sulla storia si è fatto e delle sue ricadute pubbliche sull’Italia odierna (quale che sia: uno Stato più o meno moderno, una nazione più o meno unitaria, un sistema politico-sociale più o meno coeso). Alle radici di questo canone, fra le molte possibili, in un determinato momento si è scelta una identità culturale specifica, quella letterario-linguistica (esemplare la ricostruzione del ruolo della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, pubblicata nel 1870 e dal 1923 parte integrante dei programmi scolastici del paese). In secondo luogo, l’operazione è importante per il posizionamento di una Italia così raccontata in Europa e dell’Europa in un più vasto scenario, cui appartiene, nel bene e nel male, a sua volta come grande narrazione ideologica. In questo senso, hanno profondamente ragione i curatori allorché richiamano gli studiosi europei alla necessità ormai ineludibile di una rigorosa riflessione su di una storia d’Europa che ancora, paradossalmente, ritarda. Tale sforzo costituisce infatti il contorno essenziale a una narrazione critica, consapevole ed equilibrata dei diversi «romanzi» nazionali. Benigno e Mineo, nel concludere l’Introduzione (di fatto un saggio a sé di oltre 80 pagine), indicano infatti chiaramente a cosa puntino, in questo sforzo ermeneutico: in un contesto di ritorno a letture del passato «in chiave statual-nazionale o peggio, etnico-identitaria condit[a]e da talune aperture alla visione globale» i due curatori vedono infatti quella europea come «l’unica dimensione che potrebbe ridare senso a una storia, e per noi a una storia d’Italia, sviluppata in chiave non eccezionalistica, ma critica» (p. 81).
Il paesaggio critico che risulta dalla combinazione di saggi di una grande finezza e di una introduzione ambiziosa e coerente è di una estrema ricchezza; le questioni che emergono sezione dopo sezione sono innumerevoli e la proposta esegetica (come il richiamo a un risveglio non solo critico, ma fortemente interpretativo sulla lunga durata), è importante. Dall’osservatorio medievistico che più mi compete, possono venire però alcune constatazioni, che si propongono qui senza pretesa né di esaustività, né di esattezza: in fondo, di medioevo qui si parla davvero poco.
Innanzitutto, la questione del quadro cronologico in cui si radunano i riferimenti da cui partono i diversi capitoli del «romanzo» della nazione. Anche dato l’assioma di partenza secondo cui ciò che si cerca di ricostruire è la selezione dei materiali eventualmente disponibili ed effettivamente selezionati, il mosaico dei temi considerati come fondativi si compone infatti utilizzando una spanna cronologica non omogenea, per alcuni più lunga, per altri più breve: talora naturalmente, talora meno. Inoltre, la ricerca a ritroso ha un respiro che non supera di fatto all’indietro (se non per cenni) la soglia del Cinquecento. Così, la questione della natura dello «stato», del gioco interno delle sue componenti istituzionali e non, della scala empirica dei casi italiani rispetto a un modello europeo (città-stato, stato regionale, stato territoriale, stato nazionale) e all’interno di una traiettoria peninsulare (stati regionali protomoderni vs regionalismi ottocenteschi e regioni novecentesche), del rapporto fra statualità, spazio e territorio conosce una ricostruzione, ad opera di Serena Ferente e Marco Bellabarba, che spazia attraverso la ricerca su sei-sette secoli e naturalmente interferisce con le grand narratives politiche a spanna più breve del Risorgimento e del fascismo. Analogamente, il discorso sulla Chiesa, affidato a Daniele Menozzi e a Vincenzo Lavenia, si compie lungo una traiettoria plurisecolare, che pure parte un poco dopo, dal Cinquecento e dallo snodo cruciale della Riforma, allo stesso modo in cui il tema, cruciale in questa lettura, che è quello di Letteratura e lingua, affidato rispettivamente a Stefano Jossa e a Ottavia Niccoli, si articola a partire di fatto dalla prima modernità (e in questo caso sarebbe forse valsa la pena di aprire anche a una storia sociale della scrittura come capacità grafica: penso, fra le varie letture possibili, al libro magistrale dedicato nel 2000 da Bartoli Langeli a La scrittura dell’italiano). Le sezioni dedicate a Risorgimento (ad opera di Antonino De Francesco e Marco Meriggi) e a Fascismo (di Giulia Albanese e Tommaso Baris) sono inevitabilmente legate a una spanna cronologica più corta e aprono piuttosto alla questione delle genealogie dell’Italia repubblicana in rapporto l’una a un’immagine di liberalismo molto legata all’età contemporanea, l’altra a un posizionamento della lettura del fascismo in un contesto novecentesco più o meno ampio. Le sezioni relative a Intellettuali (a opera di Marcello Verga e di Luca Baldissara) e alla Famiglia (a firma di Giorgia Alessi e Angela Groppi), dal canto loro, privilegiano un fuoco decisamente otto-novecentesco, e in questo caso avrebbero forse potuto trarre un respiro più ampio da una prospettiva cronologica più lunga (a dire il vero tenuta in conto nell’introduzione). Per la sezione dedicata agli intellettuali penso al Trecento e all’Umanesimo (non fosse che per la grand narrative legata all’umanesimo civico, al repubblicanesimo e quindi all’equazione non scontata città/reggimento collegiale), e alle sue radici medievali (penso qui a L’eccezionalità italiana di Ronald Witt); per la sezione sulla famiglia, impegnata a smontare il legame famiglia-familismo, anche più indietro (per esempio, al contrasto primevo di romanità e germanesimo e al nodo cognazione/agnazione/primogenitura). È una opzione possibile, ma sul tavolo di quanti fra Otto e Novecento costruirono i discorsi dei quali qui si parla probabilmente vi erano anche altre tessere del mosaico, come gli stessi curatori ben sanno, ritrovando alla partenza di questi sistemi di rappresentazione «un qualche punto del Medioevo, spesso con un aggancio pregnante nello spazio epocale pre-medievale romano o non romano», (p. 7). La scelta dunque di non considerarle, se non raramente nei singoli saggi, scelta motivata dal loro scarso uso nel canone, dovrebbe forse essere più chiaramente spiegata e tematizzata.
Una seconda questione riguarda non il taglio cronologico dei riferimenti assunti a fondamento del canone nazionale o della sua assenza, ma il taglio tematico: da medievista, consapevole del ruolo della dinamica città/campagna; commercio e manifattura/terra; «borghesia»/«feudalità», nella costruzione del racconto del medioevo italiano fra splendori mercantili e bancari e false partenze «borghesi», stupisce trovare assente nell’arazzo degli elementi fondativi di questo stesso racconto il tema dello sviluppo – o del mancato sviluppo – economico, che pure tanto peso ebbe anche nelle fasi più recenti della storia nazionale, tanto politiche, quanto sociali (si pensi alla grande stagione dei catasti settecenteschi e del loro studio novecentesco, alle inchieste ottocentesche la cui ricchezza informativa è stata ben dimostrata dal recente studio di Adriano Prosperi, Un volgo disperso, o ai caratteri feudali e agrari di tanto «meridionalismo»).
La terza infine è il possibile apporto concettuale di una global history o, forse meglio, world history, che qui viene solo in parte toccato nell’introduzione, e non – mi pare – sviluppato con coerenza nelle sue eventuali potenzialità euristiche. Come scriveva Bentley nel 2011, nell’introduzione dell'Oxford Handbook of World History, la storiografia accademica – di matrice europea e più genericamente occidentale – si confronta con due problemi, quello dell’Europa e quello dello stato-nazione. In una revisione profonda della rigidezza (ideologica nel suo senso più proprio) dell’adozione di questi modelli come teleologici e inevitabili risiede l’apporto maggiore di un approccio che tenga conto del turn toward the global e che riesca a superarne la paradossale distanza dai discorsi di storia dello Stato e della nazione.