IV, 2021/2

Francesco Benigno, E. Igor Mineo (eds.)

L'Italia come storia

Review by: Francesca Sofia

Editors: Francesco Benigno, E. Igor Mineo
Title: L'Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione
Place: Roma
Publisher: Viella
Year: 2020
ISBN: 9788833132952
URL: link to the title

Reviewer Francesca Sofia - Università di Bologna

Citation
F. Sofia, review of Francesco Benigno, E. Igor Mineo (eds.), L'Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione, Roma, Viella, 2020, in: ARO, IV, 2021, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/2/litalia-come-storia-francesca-sofia/

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Frutto di animati dibattiti seminariali svoltisi a partire dal 2012 (il primo, dell’ottobre di quell’anno, organizzato proprio presso l’Istituto Storico Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento), L’Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione, si propone di rivisitare criticamente il racconto nazionale italiano, così come si è venuto sviluppando a partire dall’Ottocento (ma con alcune propaggini che risalgono al XVI secolo) e che, nonostante l’eclissi della grand narrative nazionale a livello editoriale, ancora oggi è presente nel dibattito pubblico nella forma di cascami incapaci di confrontarsi con i risultati, talora assai divergenti, della ricerca storiografica. Sono gli stessi curatori, Francesco Benigno e E. Igor Mineo, a sottolineare come l’Italia, quando si parla di canone nazionale, non si discosti affatto da altre esperienze europee. Se per «canone nazionale» bisogna intendere quella narrazione storica di lungo periodo che abbraccia un arco temporale molto esteso, risalente a qualche evento del Medioevo o dell’antichità classica e che ha il proprio baricentro in una modernità svelata dalla coincidenza «della nazione con il suo Stato» (p. 7), la morfologia del «romanzo» nazionale nostrano è certamente comune ad altri discorsi storici europei. Ciò che lo caratterizza, tuttavia, è il fatto di essere alquanto problematico, generando ripetutamente sensazioni di disagio nei suoi confronti, tali da condurre talvolta all’acredine e al rancore. Il canone viene pertanto analizzato all’interno del volume scomponendolo in alcune delle parole-chiave che più hanno segnato il Sonderweg italiano della modernità politica, e che sono Stato, Chiesa, lingua e letteratura, intellettuali, risorgimento, famiglia e fascismo, ciascuno affidato alla riflessione di due autori che lo affrontano a partire da prospettive diverse, ma dialoganti.

Stato, innanzitutto. Il dibattito storiografico italiano si è a lungo diviso tra coloro che individuavano, sulla scia di Sismondi, nel policentrismo comunale medievale l’icona distintiva della modernità politica italiana – destinata a soccombere a una lunga e tormentata decadenza con il Cinquecento – e coloro che invece imputavano proprio alla vitalità del Medioevo cittadino italiano non solo i ritardi nel processo di unificazione nazionale, ma anche le molte tare particolaristiche con cui lo Stato finalmente unitario dovette fare i conti. Divergenti nel valutare questa particolare vicenda italiana, queste due letture coincidevano tuttavia in un punto, cioè quello del totale disinteresse per gli Stati territoriali che avevano caratterizzato i secoli del nostro antico regime. Alla loro lenta emersione nella ricerca storiografica – che si può far risalire agli anni Settanta – unitamente all’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione – sono pertanto dedicati i due contributi di Serena Ferente e di Marco Bellabarba. In entrambi i casi, i saggi costituiscono l’occasione per dialogare efficacemente con quella parte della storiografia internazionale che da più di trent’anni ha posto in discussione lo schema evolutivo dello «Stato moderno», ricordando come le ricerche condotte negli anni recenti abbiano mostrato la varietà di pratiche politiche non necessariamente statali, presenti del resto anche nelle più mature monarchie territoriali d’oltralpe. E dove il «passe-partout del particolarismo», per usare un’efficace espressione di Bellabarba, viene poi proiettato in spazi ancor più dilatati, riassumibili nella geografia degli imperi moderni, piuttosto che all’interno di una cornice nazionale.

Quando la storiografia ha iniziato a studiare queste realtà, ne ha dato tuttavia una puntuale lettura riduttiva, palese nella stessa dizione di «antichi stati italiani», quasi a sottolineare la pretesa arcaicità di tale sistema e a sottintendere che nella nostra penisola la vera «modernità» non poté esprimersi se non con la realizzazione dello Stato nazionale e con l’affermazione dell’industrializzazione. Colpevole di non avere una storia unitaria teleologicamente conseguente, lo Stato nazionale ha assunto, come rileva Marco Meriggi, un carattere «derivativo», nel senso di un adeguamento a un altrove geografico e culturale, esemplato dalla Francia per quanto attiene ai profili politico-istituzionali e dalla Gran Bretagna con riferimento alle strutture economiche e ai diritti di libertà. Se si tiene poi conto del fatto che la soluzione sabaudista tagliava fuori molteplici aspettative che avevano innervato il discorso risorgimentale, il combinato disposto dell’affanno di una nazione late comer e di un Risorgimento incompiuto hanno alimentato il canone storiografico di un «paese mancato». Presente fin dai primi anni unitari, questa linea interpretativa ha connotato in misura prevalente la storiografia del secondo dopoguerra, nella quale la lezione gramsciana della rivoluzione incompiuta ha rappresentato un palinsesto suscettibile di infinite variazioni sul tema. Né la svolta culturalista prodottasi con l’apertura del nuovo millennio – esemplata soprattutto dai lavori di Alberto M. Banti – ha rovesciato il giudizio di valore: la rinnovata attenzione al tema della nazione, così come enunciata dai nostri patrioti risorgimentali, ha sì rivalutato la presa del processo di nazionalizzazione, in quanto fondato su una miscela di atavici miti comunitari – sangue, parentela, onore – ma ha finito per confermare quel tratto autoritario e intollerante del nostro Stato-nazione che era acquisizione della precedente stagione di studi: anche al prezzo, come sottolinea Antonino De Francesco, di obliterare la complessità del nostro Risorgimento e la pluralità delle sue componenti in termini di protagonisti, programmi e prospettive.

Non a caso i lavori di Banti hanno consentito di tracciare un filo rosso tra il nazionalismo risorgimentale e post-unitario e quello fascista, rinnovando sotto nuove spoglie l’interpretazione continuista del fascismo prevalente nel panorama storiografico italiano fino agli anni Novanta del secolo scorso. Stilizzando una vivace stagione di studi, il fascismo è apparso vuoi come una sorta di disvelamento di tare presenti da lunga data nel tessuto connettivo della nazione, segnate dal trasformismo e dall’autoritarismo, vuoi come l’ennesimo travestimento di una borghesia pronta a dismettere il proprio credo liberale di fronte a sommovimenti dal basso capaci di mettere in forse la propria egemonia, o ancora – secondo le ultime interpretazioni di Renzo De Felice – come uno stato amministrativo autoritario con un deciso ancoraggio nella storia unitaria. Per un lungo tratto di strada, come sottolineano Giulia Albanese e Tommaso Baris, il fascismo è stato pertanto analizzato esclusivamente all’interno del recinto della storia nazionale, apparendo talvolta come la sua epifania. La mancata comparazione con i regimi che in Europa tra le due guerre mondiali si ispirarono al fascismo, se ha confermato il lato oscuro del nostro canone nazionale, ha avuto come conseguenza (per una paradossale eterogenesi dei fini) di cementare il mito del «bravo italiano», occultando il tema della violenza e dei conseguenti stermini di massa, che rappresentano entrambi la quintessenza dei diversi fascismi, se analizzati in una prospettiva europea.

In questa costruzione problematica del canone nazionale hanno svolto naturalmente un ruolo di punta gli intellettuali.  Nel suo saggio Marcello Verga situa nel primo decennio del Novecento l’apparire di una narrazione della storia d’Italia attraversata dal protagonismo di gruppi minoritari d’avanguardia portatori di un’idea alternativa della nazione, tutti però destinati a soccombere. Ma, come ricordano i curatori nell’introduzione, questa tradizione (perché di tradizione si tratta, dal momento che ancora oggi ne percepiamo i segni) è molto più risalente e può essere ricondotta alla mitografia della «nuova Italia» che si era venuta sviluppando negli anni del Risorgimento e che nello Stato post-unitario continuò a essere celebrata e coltivata da coloro che pensavano che l’Italia avrebbe dovuto essere «altrimenti». Si tratta della necessaria antitesi alla tesi del «paese mancato», dove l’aggettivazione allude proprio al silenzio che le classi dirigenti e la società tutta hanno rivolto ai moniti della parte progressiva e sana della nazione, quella delle avanguardie riformatrici o rivoluzionarie. Nel secondo dopoguerra, come ricorda Luca Baldissara, saranno proprio le avanguardie che avevano partecipato alla Resistenza ad aprire la stagione di studi per la quale il fascismo non era altro che l’espressione di una nazione indirizzata fin dai suoi esordi verso una deriva autoritaria.

 Un discorso a parte riguarda la storia della letteratura, che non solo ha sopperito a ritroso alla mancanza di una storia politica unitaria, ma che è stata anche parte rilevante della nostra pedagogia nazionale. Un ruolo assolutamente strategico da questo punto di vista è stato svolto dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, dove la storia della letteratura veniva identificata con la storia nazionale tout court. Come scrive Stefano Jossa, la convergenza intorno a De Sanctis dei tre intellettuali che hanno maggiormente segnato la cultura italiana nel XX secolo – Croce, Gentile e Gramsci –, con le evidenti ricadute nelle rispettive famiglie politiche di appartenenza, ha determinato un primato del letterato nell’opinione pubblica sconosciuto in altri contesti europei. E si tratta di un primato che ancora oggi persiste, nonostante i tanti revisionismi intonati al recupero di visioni più policentriche della storia letteraria, poiché nessuno finora è sembrato in grado di rinunciare al racconto di un’unitaria Letteratura italiana, ribadendo inconsciamente la difesa del primato morale del letterato nella costruzione del discorso pubblico. La problematicità di questo presunto primato merita di essere accostata a quanto scrive Ottavia Niccoli sul multilinguismo presente in Italia nella prima età moderna, vale a dire in quegli stessi secoli nei quali la lezione desanctisiana vedeva formarsi la nostra storia nazionale. Ne risulta ancora una volta un’unità culturale incerta e frammentata, dove il volgare comune – utilizzato in maniera strumentale secondo le necessità – si accompagnava alla lingua del sacro (il latino) ed entrambi convivevano a loro volta con la lingua della tradizione letteraria e con i diversi dialetti che innervavano (e continuano, nonostante tutto, a innervare) la penisola italiana.

 Il fatto che la presenza del papato abbia segnato in profondità la storia d’Italia costituisce un dato acquisito ma, come ricorda Vincenzo Lavenia, ancora oggi controverso, sia nella pubblicistica sia nella pratica storiografica. L’antica polemica tra neo-guelfi e neo-ghibellini, tra coloro che fanno della Chiesa la garante dell’integrità civile del paese e coloro che imputano invece alla stessa il nostro conservatorismo culturale, sembra ancora oggi non avere perso terreno. È significativo, ad esempio, che anche una prospettiva come quella di Paolo Prodi, per nulla apologetica e confessionale, che ha visto nella tensione tra il potere sacro e quello profano l’origine della modernità occidentale, possa venir interpretata da coloro che per comodità espositiva possiamo chiamare «neo-ghibellini» come una riproposizione dei tradizionali schemi della storiografia reazionaria. Tuttavia la storiografia ha anche cercato di affrontare la questione sotto angolature diverse: da un canto, come scrive sempre Lavenia, «provincializzando» la Chiesa italiana, vale a dire inserendo la sua storia all’interno delle strategie globali cattoliche e recuperando la dimensione internazionale dell’istituzione e degli italiani che ne facevano parte; dall’altro, evidenziando, come ci ricorda Daniele Menozzi, che il ruolo della Chiesa nella società contemporanea non è stato unicamente quello di baluardo conservatore nei confronti della modernità, ma, intenzionalmente o meno, anche di stimolo a significativi processi di rottura. Valga per tutti il modello di Stato proposto da Pio XI negli anni Trenta, volto ad affermare la preminenza dei diritti delle persone e delle comunità intermedie contro la sacralizzazione della politica affermata dal fascismo.

Strettamente connesso all’importanza rivestita dalla Chiesa nella storia italiana, è lo spazio occupato nelle nostre articolazioni sociali dalla famiglia (nella prospettiva cattolica non è infatti la famiglia la cellula-base delle comunità intermedie?). «Epicentro dell’eccezionalismo italiano», come viene definita da Giorgia Alessi, la famiglia è stata spesso considerata, soprattutto dalla storiografia e dalla sociologia anglosassoni, come il tratto più evidente dell’arretratezza italiana, il fattore che più ha contribuito ad allontanare l’Italia dai valori di una società civile avanzata. Si tratta di uno stereotipo che, inizialmente utilizzato per spiegare la distanza tra il Nord e il Sud del paese, ha finito (auspice anche la massiccia immigrazione meridionale dello scorso secolo nei paesi anglosassoni?) per connotare l’intero carattere nazionale. A prescindere dal fatto che, come ricorda Angela Groppi riprendendo quanto ci ha più volte spiegato Chiara Saraceno, la centralità della famiglia nella società civile è anche effetto delle politiche pubbliche di welfare, che in Italia hanno sempre ritenuto i legami parentali un sostituto privilegiato, la fissità del modello negativo è stato ormai sconfessata da una miriade di lavori intonati ai Women Studies e ai Gender Studies. Spetta proprio a questi studi l'aver frantumato la divisione netta e orizzontale della penisola, dimostrando la coesistenza nelle diverse scale regionali di strutture familiari assai diversificate e la porosità della classica distinzione tra pubblico e privato.

Nei saggi raccolti nel volume, come abbiamo cercato di evidenziare, sono frequenti gli stimoli volti ad allargare lo sguardo dall’Italia ai vasti spazi con i quali essa ha storicamente interagito. Ed è questo l’auspicio che i curatori si sentono di proporre nelle loro conclusioni: integrare la storia d’Italia in una storia europea, abbandonando le chiavi di lettura ispirate al nazionalismo storiografico. Auspicio certamente condivisibile, sempre però che questa prospettiva trovi degli interlocutori favorevoli in un continente dove ancora troppo spesso la dimensione globale si allea con nazionalismi di ritorno.

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