IV, 2021/1

Astrid Mignon Kirchhof, John R. McNeill (eds.)

Nature and the Iron Curtain

Review by: Matteo Gerlini

Editors: Astrid Mignon Kirchhof, John R. McNeill
Title: Nature and the Iron Curtain. Environmental Policy and Social Movements in Communist and Capitalist Countries 1945-1990
Place: Pittsburgh
Publisher: Pittsburgh University Press
Year: 2019
ISBN: 9780822945451
URL: link to the title

Reviewer Matteo Gerlini - Sapienza Università di Roma

Citation
M. Gerlini, review of Astrid Mignon Kirchhof, John R. McNeill (eds.), Nature and the Iron Curtain. Environmental Policy and Social Movements in Communist and Capitalist Countries 1945-1990, Pittsburgh, Pittsburgh University Press, 2019, in: ARO, IV, 2021, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/1/nature-and-the-iron-curtain-matteo-gerlini/

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Raccolta di saggi audace e significativa, Nature and the Iron Curtain: Environmental Policy and Social Movements in Communist and Capitalist Countries, 1945-1990, curato da Astrid Mignon Kirchhof e John R. McNeill solleva numerosi elementi di rilevanza sia storica sia storiografica, ma al contempo intende apertamente offrire lezioni per l’ambientalismo odierno, perché «historia magistra vitae». Materia controversa, alla quale il volume contribuisce tramite vari giudizi storici – non privi di una certa differenza di vedute fra gli stessi autori – sull’evoluzione dei temi e delle priorità ambientali tramite alcuni casi selezionati, evidentemente, sulle pregresse competenze degli autori dei saggi. Giudizi storici costruiti dunque su lavori di ricerca, sia di revisione della letteratura sia di documentazione, alcuni dei quali dedicati ad argomenti del tutto inediti storiograficamente, come l’inquinamento e il ricovero delle acque nella Lituania sovietica affrontato da Anolda Cetkauskaite e Simo Laakkonen, oppure la formazione delle politiche ambientali nella Jugoslavia socialista presentata da Hrvoje Petrić.

La categoria di ambientalismo comunemente intesa dagli autori vede come elemento cardine la difesa dell’ambiente naturale dagli effetti dell’industrializzazione in qualunque settore economico, una prassi di opposizione alla distruzione degli ecosistemi; esso non ha dunque un modello univoco di sviluppo economico o di organizzazione sociale, così come non lo ha avuto l’industrializzazione. La difesa di un ecosistema reclamato come proprio e di cui gli esseri umani sono parte ha animato l’azione di individui e collettività, opposizioni spontanee, movimenti organizzati o parti di istituzioni statali che fossero. I casi trattati dimostrano inequivocabilmente che simili azioni fossero presenti in entrambi i due campi del mondo bipolare, poiché l’industrializzazione poteva essere sia capitalista sia comunista. Vari saggi documentano inoltre un frequente transnazionalismo del fenomeno ecologista, sia a livello dei decisori politici sia a quello dei movimenti, valga qui richiamare il saggio comparativo di Julia E. Ault.

Indubbiamente ciò è avvenuto per il carattere trans-ideologico dell’ambientalismo: la difesa della natura e della salute, essendo gli umani parte della natura stessa, o se si preferisce ad essa biologicamente soggetti, non presupponeva appunto l’opzione per alcuno dei vari modelli politici, economici, sociali e quindi ideologici raccolti nei due campi. Pertanto nessun governo del blocco sovietico ha impiegato appieno gli strumenti di repressione del dissenso e nessun governo atlantico ha colpito l’ambientalismo come sedizioso e sovvertitore dell’ordine, non solo perché l’ambientalismo non si poneva simili finalità ma anche perché non era percepito come nemico politico da entrambi gli allineamenti ideologici. Perciò le questioni ambientali furono erroneamente ritenute apolitiche, quando invece dimostrarono esattamente l’opposto, cioè di avere una rilevanza politica profonda, strutturale se si preferisce, perché chiamava in causa la vita materiale della popolazione, esercitava la sua azione politica contro i modelli di sviluppo con tutto ciò che ne conseguiva per lo Stato, l’economia e la società. D’altronde, il fatto che le istanze ambientaliste fossero interpretate da rappresentanti non identificabili a priori come gruppo politico o classe sociale rendeva ardua la loro identificazione secondo le categorie politiche costitutive dei due blocchi.

Pur nell’eterogeneità dei casi, l’architettura istituzionale degli Stati di entrambi i blocchi era comunque deficitaria rispetto alle politiche ambientali, pertanto la partecipazione extra-istituzionale divenne un tratto connotante l’ambientalismo, con istanze che il volume identifica come tendenzialmente democratiche e opposte al potere centrale. Istanze manifestate con varia intensità: dalla manifestazione del nazionalismo ambientale ucraino in reazione al disastro di Chernobyl, trattato da Tatiana Perga, all’antinuclearismo del Montana affrontato da Brian James Leech, che avversava le decisioni del governo federale. Il carattere sostanzialmente democratico si ravvedeva invece nella richiesta – comune a tutti i movimenti – di cambiamento delle decisioni politiche e industriali dei governi posta dai vari soggetti dell’ambientalismo. Il che porta a riflettere sul giudizio storico degli effetti politici dell’ambientalismo nella Guerra Fredda, al di là degli esiti di ciascuna vicenda. Gli autori dialogano infatti sul bilancio delle politiche ambientali nel blocco sovietico, sui loro fallimenti, sui loro fatali ritardi rispetto all’Occidente come nel saggio di Laurent Coumel, oppure sul loro sostanziale allineamento con il campo capitalista, come nel caso cecoslovacco analizzato da Eagle Glassheim o tedesco-orientale affrontato da Astrid Mignon Kirchhof, valutandone gli effetti politici sugli Stati oggetto della trattazione o sull’intero sistema. Su questo ultimo punto risulta convincente inserire Chernobyl fra gli elementi che si intrecciarono nella crisi finale del sistema sovietico, mentre lo è assai meno ritenerlo elemento trainante o punto di svolta definitivo. È convincente la trattazione del movimento antinucleare tedesco, che raggiunge una simbiosi con il movimento pacifista attorno al comune obiettivo della denuclearizzazione negli anni della crisi degli Euromissili, concorrendo così a quell’assieme di condizioni nel quale si concluse il bipolarismo fra Est e Ovest, come illustrato da Stephen Milder. Lo è meno attribuire una causalità cardinale a questi elementi; certamente perché in un processo complesso quale la fine dell’Unione sovietica ogni spiegazione univoca è inevitabilmente riduttiva, ma anche perché su questa complessità esistono storiografie con le quali purtroppo gli autori non mostrano di interloquire. Varie storiografie della crisi degli Euromissili e della conclusione della Guerra Fredda secondo prospettive politiche, strategiche e diplomatiche, che però contemplano l’azione dei movimenti antinucleari, sia ecologisti sia pacifisti, nei processi decisionali e nella costruzione delle immagini di forza o di debolezza dei sistemi, co-essenziali alle azioni politiche e strategiche: senza diffondersi, basti qui richiamare i lavori di Matthew Evangelista.

È forse necessario ribaltare in senso gestaltico il problema, vedendo il mezzo pieno anziché il mezzo vuoto, inquadrando quindi Nature and the Iron Curtain come ulteriore passo, dopo quello già intrapreso dallo stesso McNeill con Corinna Unger in Environmental Histories of Cold War, nell’approcciare la storia della Guerra Fredda attraverso una storia specialistica o tematica che dir si voglia, come è il caso della storia ambientale. Cioè narrare l’ambientalismo nel discorso politico internazionale, secondo un sentiero già avviato dalla storia della scienza e della tecnologia, primo fra tutti da John Krige, e ancora ben lontano dall’essere completamente battuto. Visto dalla parte della storiografia della Guerra Fredda, è invece utile confrontarsi con le acquisizioni della storia ambientale, per arricchire una prospettiva di studio che da tempo ha cessato di essere unicamente strategico-militare, e che anzi in virtù dell’apertura alle prospettive economiche, ideologiche, politiche latu sensu, ha rinnovato il valore dell’elemento strategico-militare, trattandolo non come una monade ma come l’epistilio di un sistema complesso.

Il contributo che questo volume può dare alla storia della Guerra Fredda è dunque interessante, a partire dall’ampio spettro dei temi trattati, che includono significativamente anche la tutela del paesaggio, come nel caso italiano presentato da Wilko Graf von Hardenberg, oppure la cooperazione allo sviluppo, come nell’iniziativa Water for Peace trattata da Jacob Darwin Hamblin. Un ampio spettro nel quale si stagliano una presenza e un’assenza, entrambe identificate dai curatori nella loro introduzione. La presenza è quella dell’energia nucleare, sulle cui applicazioni militari si costruiscono i sistemi difensivi dei blocchi e sulle cui successive applicazioni civili si rilanciano cooperazione multilaterale e competizione fra sistema comunista e capitalista. Vi è un uso duale insito nel ciclo nucleare, dal quale in potenza si ricava sia il materiale fissile per gli armamenti sia il combustibile per i reattori e le fonti per le applicazioni mediche, neglette nella percezione collettiva ma largamente diffuse nella realtà. Questo aspetto tecnologico ha offerto uno spazio materiale e politico alla convergenza fra i movimenti pacifisti contro le armi nucleari e i movimenti in opposizione ai reattori di potenza dedicati alla produzione elettrica. Pur potendo spesso definire tali movimenti come antinucleari tout court, la convergenza non ha significato identità, come il citato caso tedesco trattato da Milder ben chiarisce, e come d’altronde lo stesso caso italiano testimonia: nel movimento contro gli Euromissili si ritrovavano invece posizioni a favore dell’elettronucleare, ascrivibili agli scienziati atomici e a una tradizionale posizione del Partito comunista. Il movimento antinucleare diveniva parte del confronto bipolare e del gioco politico interno dei paesi coinvolti, raggiungendo un grado di politicizzazione inedito per i precedenti movimenti ecologisti proprio perché univa opzioni civili e militari in ogni modo rilevanti per l’ecologia (basti pensare all’inquinamento causato dai test d’arma). Tuttavia, come ravvedono acutamente i curatori nella loro introduzione, il nucleare tendeva immediatamente a colpire l’immaginario collettivo sovraesponendo le sue implicazioni strettamente ambientali a discapito di altre forme di inquinamento e distruzione ambientale affrontate nel volume. Il saggio di Henrik Ehrhardt sull’inquinamento atmosferico da parte delle industrie elettriche nella Repubblica Federale tedesca analizza una parte di questo immenso tema, che l’ambientalismo non ha considerato al pari di altri, cioè l’inquinamento da fonti fossili in tutti i suoi molteplici aspetti. Certamente Scott Moranda, nel suo saggio sulla resistenza all’industrializzazione agraria nella Germania occidentale, tocca gli aspetti derivanti dall’industria degli idrocarburi; ma le implicazioni dirette dell’inquinamento veicolare, termico domestico o delle stesse attività estrattive, menzionate nell’introduzione, hanno ricevuto negli anni della Guerra Fredda un’attenzione sproporzionatamente minore da parte dell’ambientalismo rispetto a quella ottenuta dalle grandi mobilitazioni antinucleari. Nel lungo confronto fra istanze ambientali ed espansione industriale, l’irrompere del movimento antinucleare ha contribuito in maniera forse decisiva, sicuramente rilevante, a bloccare l’espansione del settore elettronucleare in favore dell’industria degli idrocarburi: beninteso, al di là delle intenzioni dei movimenti antinucleari stessi. Ovviamente l’industria nucleare incontrava e incontra problemi di vario ordine, non solo di public acceptance, che hanno concorso alla sua mancata affermazione come magna pars della produzione elettrica mondiale, ma soltanto dopo la fine dell’Unione Sovietica la lotta a tutte le forme di inquinamento derivanti dall’industria degli idrocarburi ha cominciato ad assumere il rilievo che merita, dai danni derivanti dall’attività estrattiva, a quelli derivanti dal trasporto con pipelines o navi, ai gas serra, al particolato atmosferico, all’inquinamento da plastiche e microfibre. Negli anni recenti questa consapevolezza è aumentata, dal ricordato accordo di Parigi al movimento dei «Fridays for future», e (anche se gli autori probabilmente dissentiranno) l’ambientalismo attuale dovrà confrontarsi seriamente con le tecnologie di sfruttamento delle fonti rinnovabili, tutt’altro che prive di gravi implicazioni per l’ambiente, dalla deturpazione del paesaggio causata dai parchi eolici o solari, allo smaltimento dei pannelli fotovoltaici e delle batterie al litio.

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