Reviewer Francesco Leone - Universität Trier
CitationA distanza di due anni da Qualcosa di nuovo da noi s’attende (2016), Jacopo Perazzoli affronta di nuovo il tema della storia del socialismo europeo-occidentale negli anni Cinquanta e Sessanta, comparando l’elaborazione teorica e programmatica dei tre partiti già oggetto del precedente volume, il PSI, il Labour Party e la SPD.
Questa volta l'analisi verte soprattutto sull’atteggiamento di tali forze politiche di fronte al capitalismo e al suo sviluppo, in quella che viene (quasi) universalmente considerata la sua età dell’oro. Dopo un primo capitolo, in cui l’autore descrive le radici e le peculiarità della riflessione teorica dei tre partiti, nel secondo e nel terzo vengono affrontate le affinità e le divergenze di fronte ad alcuni temi centrali: la modernizzazione dei processi produttivi, la ricerca scientifica e le sue conseguenze politiche, il welfare e le riforme strutturali del sistema socio-economico.
Il volume si inserisce nel fecondo filone di ricerca che ha portato nel corso degli ultimi trent'anni alla pubblicazione di molti studi sulla sinistra in generale, e in particolare sui partiti socialisti e socialdemocratici occidentali, alcuni dei quali appartengono ormai al canone storiografico; si pensi a titolo d'esempio ai volumi di Padgett-Paterson (1991), Sassoon (1996), Lazar (1996), Orlow (2000), Eley (2002). L’autore, ben consapevole delle difficoltà della ricerca comparativa, compie una serie di scelte, a volte implicite (trattando ad esempio soltanto l’élite del partito, in controtendenza rispetto alla storiografia sul socialismo più contemporanea, soprattutto quella «nord-europea», ben attenta ciò che avveniva alle basi dei partiti), altre volte argomentandole con convinzione (come nel caso dell’esclusione della politica estera e degli affari internazionali dalla trattazione, comunque in linea rispetto alla tradizione storiografica di riferimento).
Il volume risulta estremamente interessante soprattutto nelle parti in cui l’autore. riesce a esplorare terreni ancora vergini, come quello dell’atteggiamento rispetto alla ricerca scientifica o all’automazione: temi, cioè, che suscitarono vivaci dibattiti negli anni in questione. Tali dibattiti, che non sono mai stati del tutto ricostruiti in sede storiografica, meriterebbero sicuramente un approfondimento ulteriore, anche soltanto limitando lo sguardo al caso italiano, dal quale affiorano protagonisti dimenticati, come il ministro per la ricerca scientifica Carlo Arnaudi. Se non altro perché è impossibile, leggendo le pagine dedicate alla considerazione di cui scienza e istruzione godevano presso i leader socialisti in tutta Europa, non pensare alla stretta attualità dell’autunno 2020 e al corto circuito in atto tra ricerca scientifica, opinione pubblica e scelte politiche.
Alcuni piccoli rilievi metodologici appaiono ad ogni modo necessari: non si comprende fino in fondo la scelta dei partiti oggetto della comparazione: se da un lato è comprensibile e condivisibile confrontare partiti che hanno in comune una parabola caratterizzata da sconfitte elettorali negli anni Cinquanta, rielaborazione della propria piattaforma programmatica e assunzione di ruoli di governo nel decennio successivo, dall’altro sarebbe stato interessante includere partiti che dopo il 1951 parteciparono al governo dei rispettivi paesi, come quelli scandinavi, quello austriaco o quello olandese (quest’ultimo peraltro «nobilitato» storiograficamente proprio da Orlow nella sua storia comparata dei partiti francese, tedesco e olandese). Tali partiti, infatti, hanno contribuito molto alla storia della sinistra non comunista (si pensi a Bruno Kreisky o a Olof Palme); oppure quello francese, un caso anomalo, sì, ma in fondo non più del PSI, (Cafagna 1996; Sabatucci 1991), della SPD (si pensi a quanta storiografia abbia letto la sua storia con le lenti del Sonderweg) o del Labour. Tanto più che l'autore, esplicitando spesso come gli oggetti della comparazione siano diversi per storia e contesti, rifiuta giustamente la tesi artificiosa, pur diffusa in una certa storiografia, dell’esistenza di un «modello socialista tipico» per i partiti socialisti occidentali (assumendo come riferimento a volte la natura di partito interclassista/catch all, altre volte la sua vicinanza/lontananza al comunismo, altre volte ancora i suoi risultati elettorali).
Anche la periodizzazione fa sorgere qualche domanda: la scelta di analizzare gli anni Cinquanta, se collegata in qualche modo a quella di escludere la politica estera, esclude dalla trattazione l’immediato dopoguerra, ossia il momento in cui i partiti socialisti, non ancora costretti a ballare la musica della guerra fredda, poterono dare origine a un dibattito estremamente intenso sul sistema economico, come dimostra non da ultimo l’idea diffusa dell’«ora o mai più» per quanto riguardava il rapporto con il capitalismo e con le sue possibilità di riforma.
L’ultimo rilievo riguarda la scelta di non affiancare alla comparazione una storia delle interazioni e delle influenze reciproche tra i partiti, che sarebbe stata estremamente interessante, soprattutto alla luce del «destino comune» dei partiti socialisti. Questi si sarebbero ritrovati, solo pochi anni più tardi, a collaborare strettamente e a coordinare le loro forze nella gestione di problemi in ottica sovranazionale, in Europa ovviamente, ma anche nel resto del mondo, come dimostrano ad esempio gli sforzi di Willy Brandt e del suo rapporto Nord-Sud.
Al netto di tali piccoli rilievi, il risultato è un libro interessante, che, senza mai apparire teleologico, riesce nell’intento dichiarato dell’autore: contribuire a spiegare il presente, ossia la crisi ormai decennale della sinistra europea, indagando il passato, alla maniera suggerita dalle celebri lezioni di E.H. Carr, tanto care a Perazzoli.