IV, 2021/1

John J. Curley

Global Art and the Cold War

Review by: Stefano Pisu

Authors: John J. Curley
Title: Global Art and the Cold War
Place: London
Publisher: Laurence King Publishing
Year: 2019
ISBN: 9781786272294
URL: link to the title

Reviewer Stefano Pisu - Università di Cagliari

Citation
S. Pisu, review of John J. Curley, Global Art and the Cold War, London, Laurence King Publishing, 2019, in: ARO, IV, 2021, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/1/global-art-and-the-cold-war-stefano-pisu/

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Il lavoro di Curley è la prima monografia che intende dar conto della storia dell’arte durante la Guerra Fredda in un’ottica globale. Intento dell’autore è mostrare l’inestricabile rapporto fra arti visive e politica, partendo da una definizione sensoriale della Guerra Fredda quale «a way of seeing the world». Scopo del volume, sostanzialmente raggiunto, è quello di superare la tradizionale narrazione dell’irriducibile dicotomia fra l’astrattismo americano e il carattere meramente figurativo del realismo socialista sovietico: emerge, invece, un quadro molto più sfumato e contraddittorio dell’arte del periodo considerato in cui gli stessi oggetti possono celare, contenere e negoziare le differenze ideologiche.

Il superamento della logica strettamente binaria dell’espressione artistica proveniente dai due principali centri di potere durante il quarantennio successivo alla Seconda guerra mondiale si basa su due argomenti. Da un lato l’indagine sugli artisti canonici dimostra come i più rilevanti movimenti artistici (l’Espressionismo astratto, la Pop Art, il Concettualismo e il Neoespressionismo) abbiano plasmato l’evoluzione della Guerra Fredda e al contempo ne siano stati forgiati. La formazione del canone artistico occidentale – così come di quello della controparte del blocco sovietico – si poggiò sulle stesse strutture del conflitto. La storia dell’arte del dopoguerra e della Guerra Fredda sono viste dall’autore come interdipendenti. Il secondo argomento riguarda la complicazione della narrazione binaria Est-Ovest per quanto riguarda la declinazione artistica del conflitto con un allargamento ad altri attori considerati a lungo periferici (Asia, Africa e America Latina) ma che invece hanno svolto un ruolo per nulla marginale nelle vicende artistiche del periodo. Si tratta di storie alternative che evidenziano come il Modernismo sia stata una costruzione transatlantica, con tutti i pregiudizi occidentocentrici conseguenti, proponendo, d’altra parte, l’idea di una identità artistica più conflittuale e ibrida, frutto della negoziazione fra la modernità transnazionale e le tradizioni nazionali.

La Guerra Fredda fu una forza catalizzatrice con diversi gradi di influenza sulla produzione e la ricezione degli oggetti d’arte in tutto il mondo. Poiché si trattò di uno scontro fra due progetti opposti di modernità, qualsiasi pratica artistica che si definisse «moderna» era in qualche risucchiata nell’antagonismo. Alcune opere si riferivano direttamente all’iconografia e alle figure chiave della Guerra Fredda, altre vi erano coinvolte senza il consenso dei loro autori ed altre ancora incarnavano alcuni aspetti di quell’antagonismo tramite gli stessi materiali o le modalità di realizzazione.

Il volume è composto da sei capitoli ai quali si aggiungono delle conclusioni. Nel primo capitolo l’autore evidenzia le originarie contaminazioni reciproche e «meticcie» tra le principali espressioni artistiche dei due blocchi, mostrando poi come le superpotenze promossero ed esportarono le proprie estetiche di riferimento. Nel secondo capitolo ci si sofferma inizialmente sul valore dell’opera di Pablo Picasso Massacre in Korea (1951) per riflettere sia sulla rappresentazione dei conflitti realmente combattuti nell’ambito della Guerra Fredda, sia sulla commistione di stili che attingeva al contempo a realismo e astrattismo, quest’ultimo centrale invece nella restituzione artistica del fantasma della tecnologia nucleare (si veda Nuclear Forms di Enrico Baj, 1951). Nel terzo capitolo l’autore sottolinea l’importante ruolo svolto dalla Pop Art durante la fase di antagonismo Est-Ovest. Sia perché essa fu capace di mettere in discussione i rigidi confini imposti dalla cortina di ferro creando una iconografia globale – dalla Coca Cola a Marilyn Monroe, diffusi anche a Est – e coinvolgendo anche artisti con esperienze ibride (ad esempio Gerhard Richter e Christo). Sia perché la Pop Art è rappresentativa di un momento di passaggio cruciale dell’antagonismo fra capitalismo e socialismo, ovvero dalla certezza ideologica – e visiva – degli anni Cinquanta alla sua messa in discussione e all’attivismo emersi nei tardi anni Sessanta. Nel quarto capitolo si esplora la confusione e la contraddittorietà attorno alla produzione e all’esposizione artistica alla fine degli anni Sessanta, espressi magistralmente dall’opera dello svedese Fahlström Mao-Hope March del 1966. Il 1968 non solo testimoniò un intenso dibattito sulla natura politica dei diversi stili artistici, ma vide gli artisti stessi impegnati a cercare di fondere le proprie pratiche estetiche con l’azione politica. Il quinto capitolo è introdotto dall'ennesimo esempio di tessitura capace di combinare – in modo tanto evidente quanto ambiguo – espressioni artistiche considerate agli antipodi: l’opera di Andy Wharol Mao (1973) ratifica l’avvicinamento diplomatico sino-americano trasfigurando l’immagine emblematica della rivoluzione comunista cinese – e dello stile realista – in un’icona pop. La messa a nudo artistica delle utopie modernizzatrici americana e comunista – dopo il Vietnam e l’invasione cecoslovacca, accomunate da una critica sempre più trasversale – è mostrata in URSS dallo sviluppo dall’arte non conformista (Concettualismo e SocArt) con cui si vuole evidenziare la frattura completa fra retorica propagandistica e vita quotidiana. Il capitolo infine si sofferma sull’approfondimento degli scambi e delle interazioni fra artisti provenienti dai due versanti della cortina di ferro grazie alla distensione, esaminandone al contempo i limiti. Il sesto capitolo evidenzia l’accelerazione del processo esaminato nel capitolo precedente: pur in un’epoca di «Seconda Guerra Fredda» – con riferimento alla prima metà degli anni Ottanta – e di rinnovata conflittualità fra le superpotenze, il postmodernismo disvelava l’obsolescenza delle grandi narrazioni portate avanti sui due versanti della cortina di ferro e la loro incapacità di offrire risposte credibili alle persone e di rifletterne la reale condizione. Una situazione ben rappresentata dall’installazione di Vito Acconci denominata Instant House (1980), in cui le pareti interne a stelle e strisce di una stanza celano quelle decorate con falce e martello che ne caratterizzano l'esterno; o dalla fotografia di Sybille Bergmann del 1986 in cui coglie una statua di Friedrich Engels a Berlino sospesa in aria, lasciando lo spettatore con il dubbio che si tratti di monumento da erigere oppure da smantellare, come sarebbe realmente accaduto qualche anno dopo. Nel capitolo conclusivo, più che tirare le fila del discorso, ci si sofferma sull'eredità che l’arte legata alla Guerra Fredda ha lasciato a livello globale dagli anni Novanta ai giorni nostri.

È certamente apprezzabile lo sforzo dell’autore. – storico dell’arte – di portare avanti un discorso interdisciplinare in cui ogni capitolo è introdotto da una, seppur sintetica, contestualizzazione storico-politica. D’altro canto, l’approccio utilizzato, se può risultare innovativo per l’ambiente degli studiosi di arte, lo è meno nell’ambito degli storici contemporaneisti. La messa in discussione della logica binaria dell’antagonismo bipolare attraverso l’approccio artistico e culturale, e la conseguente maggiore presa in considerazione delle «periferie» della Guerra Fredda, fanno parte ormai da almeno due decenni dello sguardo con cui gli storici indagano la storia internazionale del secondo Novecento. In questo senso, stride il contrasto fra le affermazioni programmatiche dell’autore. e la sottovalutazione, se non l'indifferenza, rispetto a contributi storiografici ineludibili circa il tema della Global Cold War (come i lavori di Odd Arne Westad) e della Cultural Cold War (Frances Stonor Saunders e Giles Scott-Smith in primis). Infine, il contesto extra-euroamericano rimane comunque sottorappresentato, nonostante le pur condivisibili affermazioni sull’importanza di considerare anche in campo artistico e culturale gli spazi, fino a poco tempo fa meno studiati, di un antagonismo che fu veramente globale.

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