Reviewer Roberta Mira - Università di Bologna
Citation«Calarsi nelle piazze e nelle aule dei tribunali». È questo l’intento dichiarato da Andrea Martini in apertura del volume Dopo Mussolini sulle modalità con cui l’Italia del dopoguerra fece i conti con il suo passato fascista.
Tra le diverse forme che assunsero le sanzioni contro il fascismo – punizione dei delitti fascisti, epurazione della pubblica amministrazione, avocazione dei profitti di regime – l’autore si concentra sulla giustizia popolare delle esecuzioni sommarie, dei linciaggi, dei tribunali partigiani e su quella penale attraverso l’esame di una serie di casi processuali tratti dall’esperienza di diverse corti.
Martini, basandosi su un cospicuo spoglio archivistico e bibliografico, segue l’andamento cronologico degli eventi prendendo le mosse dal periodo precedente alla Liberazione e dalle vendette della popolazione su fascisti o collaboratori dei tedeschi in alcune realtà dell’Italia centrale e meridionale, nonché dall'emanazione dei primi provvedimenti governativi in materia di sanzioni, tra i quali i principali sono i Dll 159 del 27 luglio 1944 e 142 del 22 aprile 1945.
Con il secondo furono istituite le Corti d’Assise straordinarie (Cas) per giudicare i colpevoli di reati di collaborazionismo con i tedeschi dopo l’8 settembre 1943 nelle province dell’Italia settentrionale e in alcune del centro, dove più consistente era stata la presenza della Repubblica sociale e più intenso lo scontro con la Resistenza.
Le Corti d’Assise straordinarie nacquero con dei limiti evidenti, primo fra tutti l’aver circoscritto al collaborazionismo i crimini commessi dai fascisti, finendo per sminuire la violenza fascista e cancellando le colpe del regime prima dell’armistizio. Ciò nonostante, anche grazie all’introduzione di giudici popolari scelti fra cittadini indicati dai Comitati di liberazione nazionale, le Cas seppero, almeno in parte, incanalare in un quadro di legalità la sete di giustizia della popolazione e del partigianato, ponendo fine all’esperienza dei tribunali partigiani, pure considerati nel volume, e limitando le vendette e le violenze sommarie dell’immediato post-Liberazione, protrattesi in alcune situazioni fino al 1946.
Il volume si focalizza sull’attività delle Cas e l’autore suddivide l’analisi in quattro periodi (maggio-luglio 1945; luglio-ottobre 1945; ottobre 1945-giugno 1946; giugno 1946-dicembre 1953) per ciascuno dei quali prende in esame il contesto, le principali norme e l’attività concreta delle corti. Se ne ricava una lettura complessiva che, al di là delle differenze nell’operato di ogni singola Assise, va a confermare linee di tendenza note dell’andamento dei processi celebrati davanti alle Cas e interpretazioni storiografiche consolidate, che Martini arricchisce analizzando singoli casi processuali e illuminando efficacemente gli intrecci sottesi all’applicazione della giustizia penale contro il collaborazionismo.
L’autore individua nell’ottobre del 1945 un punto di svolta: il passaggio dalle Cas alle Sezioni speciali di Corte d’Assise, stabilito dal Dll 625 del 5 ottobre, separa una prima fase – durante la quale si ebbe un numero elevato di procedimenti, il 72% circa degli imputati fu condannato e non di rado le pene inflitte furono di una certa gravità – da una seconda fase, nella quale diminuirono il numero delle condanne e la severità delle punizioni, segno che «le Corti adottarono un metro di giudizio … senz’altro più benevolo» (p. 253).
Su questo cambio di orientamento pesarono i timori del Vaticano e degli Alleati, ma soprattutto, a giudizio di Martini, le critiche dei partiti politici, in particolare di quelli moderati; tutti questi attori volevano evitare una deriva giustizialista e contenere, anche in tema di sanzioni penali a carico dei fascisti, le aspirazioni di profondo rinnovamento del paese portate avanti dal movimento partigiano nei mesi della Resistenza. Con l’eccezione del Partito d’azione, anche i partiti di sinistra, in primis il Pci referente di buona parte del movimento resistenziale, si allinearono via via alle posizioni favorevoli a terminare la defascistizzazione nel senso di una pacificazione del paese, preludio alla ricostruzione post-bellica. In questo senso l’amnistia del 22 giugno 1946 giunse alla conclusione di un percorso di progressiva moderazione e suggellò il passaggio dalla dittatura fascista alle istituzioni democratiche della neonata Repubblica per favorirne il consolidamento.
Martini mostra l’influsso dell’amnistia sull’attività delle Sezioni speciali, risultante in una generale riduzione della frequenza dei processi, del numero degli imputati e delle condanne, e dell’entità delle pene inflitte. Gli anni dalla promulgazione dell’amnistia Togliatti al 1953 segnarono la chiusura definitiva di questa stagione con una serie di provvedimenti di clemenza e la concessione di numerose grazie ai condannati.
Dal volume emerge, come un filo conduttore, la continua tensione fra le richieste di giustizia della popolazione, dei partigiani, delle vittime della violenza fascista e dei loro familiari e l’applicazione in sede processuale delle norme penali per i reati di collaborazionismo. Una tensione sfociata in più di un caso in proteste veementi dentro e fuori le aule dei tribunali, e anche nell’uccisione di alcuni imputati.
Certamente vi furono giudici e pubblici ministeri che svolsero il loro lavoro all’interno delle Cas e poi nelle Sezioni speciali all’insegna della giustizia, ma è noto – e il volume lo conferma – che l’epurazione della magistratura, come accadde anche in molti altri settori dello Stato e dell’amministrazione, fu un processo inconcludente, anche a causa delle oggettive difficoltà ad operare una vera defascistizzazione che, se condotta a fondo e considerando tutti coloro che a vari livelli erano stati implicati nel fascismo, poteva rischiare di bloccare il Paese.
Non va dimenticato inoltre che numerosi magistrati e avvocati si posero in maniera critica di fronte alle sanzioni penali contro il fascismo, ravvisando limiti non banali nelle norme impiegate per accertare le responsabilità dei fascisti e punirli: dalla presunzione di colpevolezza per coloro che avevano ricoperto determinati incarichi, alla presenza dei giudici popolari ritenuti non sufficientemente preparati e in preda alle passioni politiche e, quindi, non idonei a pronunciare sentenze in un’aula giudiziaria.
Un merito di Martini è senza dubbio l’aver ricostruito i percorsi biografici di alcuni giudici, pubblici ministeri e avvocati per cercare di valutare il loro grado di adesione all’antifascismo o, viceversa, al fascismo, così da verificare il peso delle opinioni politiche personali, delle reti di rapporti e dei trascorsi individuali sul lavoro svolto in sede processuale. Ne emerge un quadro a mezze tinte in cui antifascisti convinti accettarono di difendere i collaborazionisti per deontologia professionale, laddove altri preferirono abbandonare il ruolo di pm di fronte agli esiti dei processi che mandavano assolti, o condannati a pene relativamente lievi, personaggi fortemente compromessi e responsabili di atti gravi; un quadro in cui i giudici che inflissero pene severe lavorarono a fianco di colleghi che emisero sentenze ricche di vizi procedurali perché la Cassazione potesse annullarle.
A proposito della Cassazione, Martini afferma che la Sezione speciale di Milano, appositamente istituita in via provvisoria per il giudizio sui ricorsi dei condannati, operò limitando alcuni eccessi delle corti di primo grado, senza però snaturare completamente il lavoro delle Cas. Quando la competenza sui ricorsi passò alla II Sezione penale della Cassazione di Roma, le cose cambiarono: molte sentenze furono annullate o rinviate ad altre sedi, e in generale la Cassazione indicò alle corti locali una via di crescente moderazione nel giudizio e nelle pene da infliggere ai collaborazionisti.
L’impostazione cronologica del lavoro rende a tratti complicato tenere insieme i vari elementi posti all’attenzione del lettore o seguire alcune vicende che sono lasciate e poi riprese nel corso del volume; la difficoltà nasce anche dalla compresenza nella situazione italiana di più corti di giustizia di natura diversa chiamate a giudicare i reati fascisti – Cas, Assise ordinarie, tribunali militari – che l’autore non rinuncia ad includere nell’analisi, non riuscendo però ad approfondirne in egual misura l’operato.
Per quanto riguarda le Cas e le Sezioni speciali d’Assise, vero oggetto di questo studio, gli esempi portati nel volume rendono conto della complessità della punizione penale del fascismo, la quale ebbe esiti disomogenei sul territorio e seguì un andamento definito da Martini «schizofrenico» (p. 323). L’autore, che sottopone a verifica la tesi della funzione pedagogica dei processi mostrandone i limiti nel caso italiano, sostiene che la defascistizzazione in campo penale fu comunque un fenomeno rilevante per l’alto numero di persone coinvolte. Essa ci appare però meno stringente sul piano degli esiti. Pur se in alcuni passaggi Martini sembra volersi distaccare dalle letture consolidate che vedono nella defascistizzazione un sostanziale fallimento, con il suo lavoro di esame dei fascicoli processuali ci restituisce la fotografia di una stagione giudiziale ricca di premesse e aspettative che si chiuse rapidamente a vantaggio della normalizzazione e della continuità, in cui a pagare il conto più alto furono non di rado i cosiddetti “pesci piccoli” e molto meno figure di più alto livello e maggiormente compromesse con il fascismo.
Quanto ciò abbia pesato sull’evoluzione successiva della storia d’Italia e sull’elaborazione collettiva del nostro passato è la domanda con cui Martini chiude il volume, ponendola alla riflessione di tutti noi.