Reviewer Guido Panvini - Università di Bologna
CitationIl libro di Francesco Benigno è un testo costruito su un’architettura complessa e che presenta, al contempo, molteplici chiavi di lettura. Da un punto di vista metodologico è indisgiungibile dallo studio che lo ha preceduto, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), pubblicato da Einaudi nel 2015. Tra i due volumi, editi a solo tre anni di distanza, vi è un intreccio profondo, tanto che possono essere considerati come due volti della medesima operazione storiografica e intellettuale.
Benigno presenta un saggio la cui natura è «essenzialmente interpretativa» (p. 306) e i cui livelli di analisi ruotano attorno a tre punti cardine. Il primo, di taglio culturale, mira a porre in discussione il processo di «reificazione» del terrorismo, inteso come quel «processo» che ha portato alla «produzione di discorsi finalizzati alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra» (p. 258).
L’autore individua le origini di questo slittamento semantico e concettuale negli anni Ottanta del XX secolo. Con la presidenza Reagan, infatti, gli anni Stati Uniti furono impegnati in diversi teatri di conflitto, dal Nord Africa al Medio Oriente, dall’America Latina all’Asia. All’interno dell’establishment governativo si affermò una visione dicotomica della politica mondiale, rappresentata come una lotta senza quartiere tra il bene e il male, quest’ultimo incarnato dal terrorismo internazionale, le cui diverse fila riconducevano all’Unione Sovietica, visto come il burattinaio che si celava dietro le diverse trame del terrore. Tra gli anni Ottanta e Novanta, nonostante la crisi del blocco sovietico, questa visione si rafforzò, ricevendo un contributo dall’intellighenzia conservatrice israeliana: il terrorismo venne rappresentato come un fenomeno ontologicamente determinato, mosso dall’esclusiva volontà di uccidere civili innocenti e inermi. In un celebre saggio del 1986, Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere, Benjamin Netanyahu sostenne che le radici del fenomeno fossero rintracciabili nella fusione tra l’estremismo marxista e il radicalismo islamico, un connubio ben visibile in seno alle organizzazioni armate che lottavano per l’indipendenza della Palestina. In seguito a questo passaggio, che riproponeva l’antica antitesi tra civiltà e barbarie, nelle opinioni pubbliche occidentali, il terrorismo scalzò il comunismo come principale nemico ideologico del liberalismo, divenendo un fenomeno in sé, un «nemico essenzializzato», come ebbe a scrivere Edward Said in un suo intervento (p. 60). Dopo gli attentati di Al Qaeda dell’11 settembre 2001, questa visione divenne globale, ad uso di qualsiasi regime, indipendentemente dal proprio ordinamento politico.
Tale lettura ha avuto una grande ricaduta sul piano epistemologico. Dal 1990 al 2007 si è, infatti, assistito ad un vero e proprio boom di studi di settore, con più di 3000 volumi editi solamente negli anni duemila. È stato calcolato, solo per fare qualche esempio, che dopo gli attentati dell’11 settembre sia stato pubblicato un volume sul terrorismo ogni sei ore, mentre tra il 2001 e il 2002 gli articoli scientifici sul tema si sono triplicati. Si tratta dell’ondata dei cosiddetti «Terrorism Studies» che hanno impresso un’impronta indelebile alle scienze politiche, con una ricaduta sulle pratiche della contro-insorgenza e di sicurezza patrocinate dagli Stati militarmente più avanzati, in primo luogo gli Stati Uniti d’America. Si è andata così formando una comunità epistemica in cui i confini tra ricerca accademica, attività di intelligence e finalità militari sono sempre più sottili.
Il secondo cardine del volume di Benigno ruota, perciò, attorno alle implicazioni di questo approccio e ai falsi miti scientifici che si sono diffusi sull’onda dei «Terrorism Studies». Lo scopo che si è riproposto l’autore è quello di riportare il terrorismo all’interno del «giardino occidentale» e della tradizione politica europea (p. XVIII), con un’impostazione metodologica ispirata a uno storicismo integrale. Ne sono scaturiti due impulsi, apparentemente in contraddizione ma che in realtà vanno nella medesima direzione: da un lato, il rifiuto di rintracciare le radici lunghe di un fenomeno che in realtà viene ricondotto all’età contemporanea, in ciò prendendo le distanze dagli studi che, al contrario, hanno tentato di scorgere i precedenti del moderno terrorismo in sette e movimenti che avevano agito nel mondo antico; dall’altro, individuando nella Rivoluzione francese la nascita del fenomeno terroristico, così come la sua intrinseca ambivalenza. Di qui la diade concettuale che innerva il volume di Benigno: terrore e terrorismo, i due volti inseparabili della violenza politica in età contemporanea. Il terrore, infatti, si collega ai fini palingenetici della Rivoluzione, prefiggendosi una profonda rigenerazione sociale: esso appare – scrive l’autore – come la «conseguenza del principio generale della democrazia laddove applicato a un contesto straordinario d’emergenza» (p. 13). D’altra prospettiva, il terrorismo prese da subito a configurarsi come «un evento politico dall’alto contenuto simbolico, capace di rappresentare icasticamente una lotta assoluta tra il bene e il male». In breve, conclude Benigno, «non c’è terrorismo senza cause e anzi, per meglio dire, senza una Causa (p. XVII)».
Il terzo punto attorno a cui ruota il volume è perciò la prospettiva storiografica attraverso la quale viene ricostruita la storia del terrorismo e il suo legame con la pratica del Terrore. Lungi dall’essere una vicenda lineare, l’autore mostra, al contrario, come la circolazione globale e la trasmissione di saperi tra diversi soggetti politici fosse intermittente, contraddittoria e discontinua nel tempo. Se ne ricava un quadro frammentato e allo stesso tempo straordinariamente ricco nella sua dimensione di scambio: dai rivoluzionari francesi ai patrioti del Risorgimento, dai combattenti per l’indipendenza irlandese ai movimenti che lottavano per liberarsi dalla dominazione britannica in India fino a ricostruire la complessa trama transnazionale dell’anarchismo, le cui frange radicali avevano rappresentato il primo esempio di network transnazionale e globale del terrore. Benigno individua nella Grande Guerra un momento di stallo nell’evoluzione del terrorismo, ricondotto a pratica bellica marginale in un contesto mondiale dove si stavano affermando la morte e la distruzione di massa; salvo ricordarci come un attentato terroristico avesse giocato un ruolo fondamentale nello scoppio delle ostilità. L’episodio è il culmine di complessi giochi politici e di cospirazioni che si susseguivano da decenni e che fanno luce su una questione fondamentale: ossia come il terrorismo, storicamente, non fu legato esclusivamente alla tradizione rivoluzionaria, rappresentando, piuttosto, «uno spazio di possibilità, 'un campo a disposizione' per l’intervento di una pluralità di attori, sia 'non statali', sia riconducibili a poteri costituiti, anche se quasi sempre in forma coperta» (p. 108). Ne consegue il postulato secondo cui la storia del terrorismo «è connessa inestricabilmente fin dall’origine a quella delle teorie e delle pratiche volte a contrastarlo: il cosiddetto 'controterrorismo' è stato così inevitabilmente, nei fatti ma anche sul piano teorico, una forma di terrorismo» (p. 26).
Sono tante le obiezioni che si possono muovere alla ricostruzione di Benigno, quanti sono i meriti che sono ascrivibili a un volume destinato a lasciare un’impronta indelebile sulla letteratura scientifica sulla violenza politica. Ad esempio, la parte sul secondo Novecento appare eccessivamente compressa, così come sottovalutata l’influenza del totalitarismo nel modellare la diade terrore e terrorismo ben oltre i confini cronologici del XX secolo. Per gli studiosi del terrorismo italiano, infine, rimane aperto l’interrogativo di quanto si possa dare per scontato il processo politico e morale del varcare la soglia dell’uccidere in un contesto democratico che permetteva e tollerava un alto livello di conflittualità. Un obiettivo ci sembra pienamente centrato: quello di aver dimostrato, cioè, come il terrorismo non sia una disfunzione ma parte integrante del codice fondamentale dell’ordine sociale, il cui segno e significato varia a seconda del contesto storico di riferimento. Per questa ragione lo studio di Benigno appare come molto più che la semplice messa in discussione del termine «terrorismo» e della locuzione valutativa di tipo politico-normativa di cui esso si è caricato negli ultimi decenni. Il terrorismo, piuttosto, sembra dirci Benigno, appare indistinguibile dalla sua rappresentazione, divenendo un potente catalizzatore delle inquietudini e delle ansie che attraversano la società. Si ricava un monito da questa lezione: l’impossibilità di disgiungere la storia sociale dalla storia politica, senza l’apporto della quale si corre il rischio di de-contestualizzare la violenza come un processo reale, produttivo di effetti concreti e in quanto tale pervasivo della vita degli attori storici.