Reviewer Claudio Rosso - Università degli Studi del Piemonte Orientale
CitationDi storie d’Italia ne sono state scritte tante, da Flavio Biondo a Guicciardini a Muratori a Denina e per tutto l’Ottocento; ma Aurelio Musi fa partire la sua densa e stimolante rassegna da quello che considera uno dei momenti più creativi della storiografia italiana nell’ultimo secolo: gli anni Venti e Trenta del Novecento, durante i quali, pur nel quadro politico e culturale fissato dal regime, grandi studiosi come Croce, Volpe, Morandi, Barbagallo si misurarono intorno ai problemi di fondo dell’identità nazionale.
Alla ben nota posizione di Croce, che riteneva non si potesse legittimamente scrivere una storia d’Italia prima dell’unificazione, si contrapponeva quella di Volpe, sostenitore della lunga continuità, non solo culturale o religiosa, ma anche politica del popolo italiano, le cui radici egli faceva risalire alla fine della romanità e ai regni romano-barbarici. La più nitida e articolata rappresentazione dell’idea di questa «nazione in cammino» si ritrova nella sezione storica, curata dallo stesso Volpe, della voce Italia dell’Enciclopedia italiana (1932), ampiamente discussa da Musi.
La continuità etnico-identitaria venne dilatata e ideologizzata ben oltre i limiti di Volpe dal fascista Arrigo Solmi, che nei suoi Discorsi sulla storia d’Italia (1934) tracciava una linea che congiungeva la romanità con il Risorgimento e il fascismo, presentato come lo sbocco fatale di una storia millenaria che aveva avuto come soli artefici gli italiani, senza apporti esogeni significativi. Una posizione mediana fu assunta dal liberaldemocratico Luigi Salvatorelli, che nel fortunatissimo Sommario della storia d’Italia dai tempi preistorici ai nostri giorni (1938) ravvisava un’unità di fondo fra le varie parti della penisola, di carattere soltanto «morale» prima del Risorgimento, e cementata dopo il 1860 dalla nascita dello Stato nazionale.
Al crollo del regime e alla rimessa in discussione dei tratti fondamentali della società civile e politica fa riscontro, nell’immediato dopoguerra, la fortuna delle «antistorie d’Italia». La più celebre e diffusa è quella di Fabio Cusin; ma allo stesso filone, fra storiografia e polemica politica, appartengono i testi di Carlo Antoni e di Silvio Guarnieri. La storia nazionale viene interpretata alla luce di categorie negative di ascendenza anche ma non soltanto gobettiana, dalla «mancata Riforma» al «Risorgimento fallito», dalla sudditanza alla Chiesa all’inettitudine della classe dirigente e in particolare di quella economica: si tratta di un genere destinato a confluire in quello, tuttora vivace, del «carattere degli italiani», letto via via in chiave etico-politica, psicologica, antropologica.
La storiografia degli anni Cinquanta e Sessanta è rappresentata nella panoramica di Musi, da un lato, da opere collettive, come la Storia d’Italia di Mondadori (ripresa, rivista e accresciuta della precedente edizione risalente all’epoca fascista) e quella della UTET diretta da Nino Valeri, cui lo stesso editore affianca, sempre a cura di Valeri, la collana di biografie «La vita sociale della nuova Italia»; e dall’altro, da due opere di un solo autore che hanno goduto di ampia diffusione e sono entrate a far parte della biblioteca e della preparazione non solo scolastica o universitaria di un vastissimo pubblico.
Ci riferiamo alla Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, uscita in undici volumi nell’arco di trent’anni (1956-1986), e alla Storia degli italiani di Giuliano Procacci, uscita in un solo volume nel 1968. Entrambi gli autori si riconoscono nella corrente marxista, legata al Pci, che assume in quegli anni un ruolo, se non egemone, certamente di peso determinante nella vita intellettuale del paese, e propongono entrambi un’interpretazione della storia d’Italia in chiave gramsciana. Nell’uno e nell’altro non è peraltro difficile riconoscere i segni distintivi del più ampio filone storicista al quale il marxismo italiano è strettamente apparentato; ciò si traduce nell’atteggiamento equilibrato e problematico di cui danno prova, e che giustifica l’apprezzamento e la diffusione che le due sintesi hanno conosciuto e continuano a conoscere molto oltre gli steccati ideologici. Ne sono un indizio significativo i ripensamenti con i quali sia Candeloro che Procacci rimettono in discussione, rispettivamente nel 1986 e nel 1991, alcuni punti centrali della loro interpretazione: per il primo, la tesi gramsciana sulla mancata rivoluzione agraria; per il secondo, il giudizio complessivamente negativo sullo sviluppo economico e civile dell’Italia nel secondo dopoguerra.
Uno dei tratti caratterizzanti della Storia degli italiani, la lettura della storia nazionale alla luce non solo del pensiero gramsciano, ma anche delle novità introdotte dalla storiografia francese delle «Annales», a partire dalle lunghe durate e dalla sensibilità per i movimenti di fondo della società a scapito della histoire événementielle, si ritrova di lì a pochi anni come segno distintivo e come impegno programmatico della prima delle due grandi imprese, allo stesso tempo culturali ed editoriali, alle quali Aurelio Musi dedica tutta la seconda metà del suo libro.
Si tratta della Storia d’Italia Einaudi (1972-1976), la cui lunga gestazione viene ricostruita anche sulla base degli archivi aziendali messi da tempo a disposizione degli studiosi. La ricostruzione è vivace e avvincente e mette in luce sia le consonanze e le dissonanze interpretative, ma anche politico-ideologiche che emergono in corso d’opera dietro la dichiarata uniformità degli intenti e dei punti di riferimento, sia — ed è questo uno dei punti più interessanti — le vicende interne ed esterne al cantiere editoriale, nel quale si muovono personaggi prestigiosi e carismatici, ma che convivono e collaborano con crescente disagio.
Spicca l’ego intrattabile di Ruggiero Romano, che dirige l’opera insieme a Corrado Vivanti: entrato in contrasto con Giulio Einaudi verrà progressivamente emarginato, fino a uscire dalla casa editrice e a mettere in piedi per Bompiani, a fine anni Ottanta, una nuova Storia d’Italia in dodici volumi, destinata a una risonanza infinitamente minore rispetto a quella dell’originale. Ma dall’inizio alla fine circola nell’ambiente e si trasmette all’esterno la convinzione dell’eccellenza dell’impresa. Lo testimoniano i giudizi e le graduatorie di merito che i curatori riservano agli storici chiamati a collaborare o tenuti fuori dall’opera, bollando «con attribuzioni che, con un eufemismo, possono essere considerate per lo meno inappropriate storici prestigiosi del panorama nazionale e internazionale» (p. 105).
Lo testimonia la campagna di marketing, commerciale, politica e culturale allo stesso tempo, che viene avviata per imporre la convinzione della superiorità indiscutibile di un prodotto che vuole essere ed essere considerato la punta più avanzata della storiografia non soltanto italiana. A tale campagna, così come agli aspetti finanziari dell’impresa, Musi dedica pagine molto interessanti, attento com’è alla dimensione non solo intellettuale, ma anche economica dell’attività editoriale nel momento in cui anche l’editore di cultura — ed Einaudi lo è per antonomasia — è chiamato a misurarsi sull’arena del mercato.
Fra gli storici che vengono chiamati a collaborare alla Storia d’Italia c’è anche Giuseppe Galasso. Il suo saggio intitolato Forme del potere, classi e gerarchie sociali, apparso nel 1972 nel primo volume, I caratteri originali, non è particolarmente gradito ai curatori, in particolare a Ruggiero Romano, perché considerato troppo dissonante con l’asse interpretativo e la strumentazione concettuale di prammatica.
Nell’interpretazione di Musi, Galasso fa in un certo senso da tramite fra le due grandi opere, quella einaudiana e l’altra Storia d’Italia dallo stesso Galasso avviata e curata per la UTET, uscita nell’arco di trentacinque anni, fra il 1976 e il 2011, e concepita nello stesso tempo come una storia dei singoli stati cittadini e regionali e delle fasi di storia unitaria, dall’alto medioevo a tutto il Novecento. L’attenzione alle dinamiche del potere politico, all’organizzazione sociale, al rapporto fra società, economia e cultura, che innerva il saggio del 1972, si ritrova nelle linee guida del nuovo progetto.
Ovviamente i molti autori le interpreteranno e le tradurranno in vari modi; ma sta di fatto che, vista nel suo insieme e a distanza di tempo, la Storia d'Italia della UTET appare come un notevole esempio di ricostruzione da punti di vista diversi e all’insegna di una metodologia rigorosa di uno spazio storico complesso in un tempo lunghissimo. «Una e molteplice»: così Musi definisce quest’opera che tiene conto nello stesso tempo della specificità delle singole realtà locali e regionali, dei loro punti di raccordo e dei momenti di storia comune, fino alla ricomposizione nel quadro dello Stato nazionale. Il capitolo si chiude con un’accurata analisi dei sei monumentali tomi dedicati da Galasso, a conclusione della Storia d’Italia, al Regno di Napoli fra la conquista angioina del 1266 e l’unità nazionale, e presentati come esempio di una storia se non totale, certamente di non comune complessità.
Non si può tacere il legame speciale fra l’allievo e il suo maestro, espresso a chiare lettere nella dedica: «alla memoria di Giuseppe Galasso, mio amico straordinario e maestro, questo libro di cui è il protagonista indiscusso». Con la Storia UTET si chiude la stagione delle grandi storie nazionali. Si era conclusa nel 1991 la pubblicazione di un’altra opera complessiva, la Storia della società italiana in 25 volumi dell’editore Teti: pur «organicamente legato al Pci», anch’esso era dovuto venire a patti col clima del tempo, e affiancare ai curatori e ai collaboratori ortodossi studiosi più giovani e più aperti alle esigenze di una ricerca non condizionata da pesantezze ideologiche.
Con il nuovo millennio e con la crisi non solo della storiografia, ma, ben più radicalmente, del senso storico, viene meno la domanda di quadri articolati e sistematici. Si aggiunge, sull’onda della globalizzazione, la «moda della World History». Una sua prima traduzione in termini di storia nazionale è la Storia mondiale dell’Italia, a cura di Andrea Giardina (2017). Il giudizio di Aurelio Musi, con il quale si conclude Storie d’Italia, non è entusiastico: il libro «presenta una miriade di episodi e frammenti storici dall’antichità ad oggi», e nonostante «lo sforzo compiuto dal curatore e dagli autori dei brevi contenuti ... la linea unitaria e l’interpretazione complessiva della storia italiana sfuggono al lettore». Da Volpe e Croce è passato un secolo e ogni generazione ha diritto di guardare al passato a modo suo.