Reviewer Filippo Triola - Università di Bologna
CitationLa «nostalgia di domani» di cui parla Paolo Macry non nasce dal sentimento delle occasioni perdute, che pure ha rappresentato un Leitmotiv della pubblicistica sulla più grande città del Sud Italia. Si tratta, invece, come sostiene l’autore, di una nostalgia che è voglia di vivere ciò che promette la città, di vedere ciò che riuscirà a inventarsi per rispondere al flusso del tempo, al ciclo delle generazioni (p. 15). Attraverso questa prospettiva il volume ripercorre la millenaria storia di Napoli, concentrandosi soprattutto sulle fasi di grande trasformazione sociale e sulle fondamentali cesure politiche. Queste ultime sono efficacemente individuate in tre date altamente simboliche per la città: il 1799, il 1860 e il 1944.
La breve esperienza della Repubblica napoletana ha lasciato una traccia fortissima nella cultura e nella memoria partenopea. Nessun’altra stagione come il Settecento, osserva l’autore, avvicinò Napoli alle porte del paradiso per poi inabissarsi nei luoghi più bui. Il 1799 condensa al massimo grado la tensione tra progresso e regresso secondo la prospettiva dell’Illuminismo europeo più progressista. Le modalità con le quali i Borbone riconquistarono la capitale nel 1799 stroncarono le promesse settecentesche della dinastia, che nel 1734 con Carlo III si era insediata a Napoli inaugurando un’inedita stagione di riforme amministrative e di promozione dei nuovi saperi. Nell’estate del 1799 Ferdinando IV e Maria Carolina recuperarono la città dopo una violenta strage e a loro volta ne compirono un’altra, eliminando consapevolmente un pezzo importante della classe dirigente napoletana che si era schierata con i repubblicani. Per la città fu una frattura profonda, l’autore ricorda la lettura che ne diede Benedetto Croce, secondo cui, dopo il 1799 i Borbone si trasformarono in una «monarchia lazzaronesca, poliziesca e soldatesca» (p. 109).
Il 1860 è la seconda data chiave individuata da Macry. Si tratta della fine del Regno Delle Due Sicilie e soprattutto della perdita dello status di capitale per Napoli. Un ruolo, quello di capitale, che la città aveva ricoperto per secoli. Nel 1860 la caduta si verificò in modo silenzioso, nonostante fosse l’unica capitale degli antichi Stati italiani a sperimentare un cambio di regime che di colpo interrompeva al contempo uno Stato, una tradizione e una classe dirigente. Napoli smise di essere capitale in modo quieto, senza colpo ferire.
La terza data simbolo è il 1944. Macry invita il lettore a riflettere sul fatto che dopo il 1799 la città era stata tenuta lontana dalle guerre successive. Napoli e il suo popolo non furono toccati dalle guerre del Risorgimento e dalla Prima guerra mondiale. Tra il 1940 e il 1944, invece, la città è progressivamente investita da esperienze traumatiche: i bombardamenti, l’occupazione tedesca, la ribellione delle quattro giornate, l’occupazione alleata. Tutti questi avvenimenti furono caratterizzati dalla violenza: violenza sui civili e violenza dei civili. Nel 1944, scrive Macry, il tessuto sociale della città era stremato, ridotto ai minimi termini e quasi inselvatichito. Il trauma fortissimo generato da queste esperienze è plasticamente sintetizzato nella canzone Munasterio 'e Santa Chiara, tutt’oggi ampiamente conosciuta dentro e fuori Napoli. La canzone è anche uno degli ultimi pezzi in cui la melodia napoletana – altro aspetto caratterizzante della città – si trovò a essere mezzo di comunicazione di una situazione sociale eccezionale in cui si univano violenza sulla città e violenza sulla popolazione.
Le tre cesure individuate da Macry – il 1944, il 1860 e il 1799 – appaiono convincenti. In effetti basta conoscere un po’ la città per constatare, come afferma l’autore, che ciò che colpisce di queste fratture è che non appaiono mai pienamente metabolizzate. A parere di chi scrive la cesura del 1799 è sicuramente una delle più significative in tal senso. Basta citare il legame tuttora intenso tra il 1799 e un’istituzione culturale di rilievo internazionale come l’Istituto italiano per gli studi filosofici che ha sede nello splendido palazzo Serra di Cassano nel quartiere di Pizzofalcone. Come sarà forse noto, nel 1799 i duchi Serra di Cassano decisero di chiudere il portone principale del palazzo in segno di protesta contro i Borbone per la decapitazione del giovane Gennaro Serra, che aveva aderito alla Repubblica. Il portone da allora rimase sempre chiuso, tranne nel 1995 quando il fondatore dell’Istituto, Gerardo Marotta, decise una solenne riapertura perché l’allora sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, sembrava riallacciare i fili spezzati di quell’esperienza, riprendendo gli ideali del Novantanove. Quegli stessi ideali furono evidentemente presto abbandonati perché poco dopo il portone fu richiuso e così si presenta anche oggi per chi passa in via Egiziaca a Pizzofalcone, dove affaccia il solenne portale.
La tesi sicuramente più forte è tuttavia quella che Macry illustra verso la fine del volume. Si tratta dell’identità debole della città. In realtà non pochi elementi potrebbero indurre il lettore ad aspettarsi tutt’altro. Anche alla luce degli stereotipi tutt’ora ampiamente in circolazione su Napoli e la napoletanità nella cultura di massa, l’idea di una città dalla identità debole appare essere quantomeno sorprendente. Macry non sottovaluta il fatto che la città sia un luogo di tensioni identitarie, ma da questo campo di tensione non sembra emergere una caratterizzazione forte. Napoli, osserva l’autore nelle ultime pagine, è una città inclusiva. Rielaborando alcune esperienze autobiografiche, da uomo giunto a Napoli dal nord alla fine degli anni Sessanta del Novecento, Macry ricorda che altrove torinesi, milanesi, genovesi non si diventava mai, se non eri di quelle città, «a Napoli ti davano una green card mezz’ora dopo averti conosciuto, senza che l’avessi neppure chiesta» (p. 189). È proprio per questa identità debole che la città non ha la riservatezza, le chiusure, il riserbo di una «cultura forte» senza avere al contempo l’«insidiosa arrendevolezza dei timidi» (p. 190).