Reviewer Giovanni Bernardini - FBK-ISIG e European University Institute
CitationNon è una sorpresa che il mercato editoriale, prigioniero da tempo dello stanco rituale degli anniversari, sia stato inondato di pubblicazioni dedicate al centenario della Conferenza di pace di Parigi del 1919. Più sorprendente, semmai, è che il rapido ritirarsi della piena abbia lasciato almeno alcuni contributi degni di rimanere tra gli scaffali come opere di riferimento per il futuro. Per più di una ragione, il volume di Eckart Conze è destinato a far parte di questo ristretto novero, come dimostra la provvida decisione di tradurlo in più lingue, incluso l’italiano.
Questo perché l’autore, profondo conoscitore della storia europea contemporanea, che ha scandagliato da diversi punti di vista e seguendo percorsi interdisciplinari (si veda il suo originale lavoro di qualche anno fa sulla storicizzazione del concetto di sicurezza), ha accuratamente evitato di cadere nelle tentazioni che spesso minano lavori di respiro paragonabile. Innanzitutto, Conze rinuncia programmaticamente ad assemblare l’ennesima, tanto brillante quanto innocua collezione di figurine e aneddoti che circondarono l’imponente e farraginoso processo di pace. Le concessioni alla ricostruzione minuziosa dei ritratti personali e dei momenti cruciali, in cui talvolta l’autore indugia, sono sempre funzionali alle interpretazioni che supportano il volume in modo coinvolgente e stimolante. Soprattutto, Conze impegna il lettore in un notevole sforzo di contestualizzazione che vuole distoglierlo dall’errore, così frequente in passato, di collocare l’assise di Parigi in un’asettica bolla spazio-temporale, estranea alla catastrofe bellica (conclusasi soltanto due mesi prima) e a quanto di imprevedibile, incontrollabile e decisamente minaccioso stava accadendo nel mondo che i leader riuniti cercavano di riorganizzare.
Quanto alla continuità con il clima bellico, Conze dedica una lunga prima parte del volume agli ultimi due anni della guerra, cioè all’epoca in cui essa divenne definitivamente totale, irreversibile fino alla vittoria senza condizioni, globale sul piano geografico, «moderna» per l’emersione e il coinvolgimento a vario titolo di ideologie universaliste, come il bolscevismo e il liberalismo internazionalista wilsoniano. Se l’intento più evidente è quello di consentire al lettore di misurare l’estensione della devastazione fisica e morale, e con essa l’inevitabile escalation degli obiettivi per tutte le parti in causa, è soprattutto sul comportamento delle leadership tedesche che Conze indugia, perché funzionale all’interpretazione «revisionista» che sta al cuore del suo lavoro. Non è un segreto che il Trattato di Versailles imposto dai vincitori alla nuova Germania postbellica abbia rappresentato al contempo il culmine dell’intero processo di pace e, secondo molte interpretazioni postume, l’atto di somma ingiustizia perpetrato ai danni della neonata Repubblica di Weimar, che avrebbe minato sin dall’inizio la sua esistenza e favorito l’ascesa del nazionalsocialismo. È qui che Conze, forte di un’abbondanza di fonti documentarie e di ricostruzioni che raramente sono giunte al grande pubblico, ricorda come la leadership tedesca (sempre più dominata dall’elemento militare) non abbia mai cercato realmente una pace «giusta» durante il conflitto, e come essa si fosse legata all’obiettivo di un ingrandimento territoriale e di un dominio continentale che avrebbe dovuto soppiantare per sempre il dogma dell’equilibrio europeo. Uno spirito che si rafforzò ulteriormente all’indomani della Rivoluzione di Febbraio in Russia, quando la duplice possibilità di una conclusione della guerra sul fronte orientale e di una sostanziale espansione territoriale tedesca a est iniziò a prendere corpo. Conze segue con un’attenzione estranea a tante ricostruzioni di matrice anglosassone l’evoluzione degli obiettivi di guerra tedeschi fino all’ascesa del regime bolscevico a Mosca e soprattutto fino alla stipula del Trattato di Pace di Brest-Litovsk nel marzo del 1918. Sul piano militare, quel breve momento dette ai vertici di Berlino l’illusione (una delle tante richiamate nel titolo del libro) che una vittoria definitiva fosse alle porte. Su quello politico, secondo Conze, l’insostenibile durezza dei termini del Trattato (sui quali stranamente la storiografia è spesso reticente, forse perché esso fu cancellato dall’esito finale della guerra) avrebbe esercitato un peso decisivo sulle discussioni tenute un anno più tardi a Parigi. Il Trattato con la Russia mostrava «al mondo intero – e soprattutto alle potenze dell’Intesa – quale aspetto avrebbe potuto assumere una pace negoziata con la Germania e i suoi alleati dopo una loro vittoria a ovest»; la sua «ombra lunga … si proiettò ben oltre la fase conclusiva del conflitto, fino a investire la stessa conferenza di Parigi, dove il riferimento a quanto accaduto sul fronte orientale rinfocolò la determinazione degli Alleati per una pace dura».
È a questo punto che, secondo l’autore, subentrò la seconda «illusione» tedesca, destinata a una frustrazione inevitabile: la speranza che il precipitoso e ancora precario cambiamento di regime in Germania, unito alle alte quanto vaghe promesse di una «pace senza vinti né vincitori» del Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, fosse sufficiente a cancellare quanto accaduto negli anni precedenti e a garantire a Berlino un trattamento di favore. Un’illusione che – spiega Conze – le autorità tedesche coltivarono fino al giorno in cui ricevettero la copia definitiva del Trattato di Pace elaborato dalle potenze vincitrici, accompagnato dalla scelta tra sottoscriverlo senza emendamenti o prepararsi alla ripresa delle ostilità. È qui che il libro fornisce al lettore strumenti indispensabili per fare chiarezza sulla breve ma convulsa fase che intercorse tra la consegna del testo e la sofferta decisione finale. Forte di fonti dirette e indirette, l’autore ricostruisce i dibattiti interni che portarono addirittura a un avvicendamento tra governi e a turbolente manifestazioni di piazza; nel dar conto delle ragioni della fazione che alla fine ebbe la meglio, Conze illustra anche un argomento spesso sottostimato dalla letteratura impegnata a presentare il Trattato di Versailles come il più duro e intransigente possibile. Al contrario, anche una parte delle stesse autorità tedesche riconosceva che il rigetto del testo e la ripresa del conflitto non avrebbero condotto soltanto a un’inevitabile sconfitta dell’esercito tedesco ormai allo sbando: con ogni probabilità, ne sarebbe conseguita l’occupazione militare dell’intero territorio nazionale (mai interessato dai combattimenti al momento dell’armistizio), che avrebbe favorito un «processo di atomizzazione della Germania». In fondo, quest’ultima era nata meno di cinquant’anni prima da un pulviscolo di entità statali e non erano poche le voci autorevoli (soprattutto in Francia) che consideravano il ritorno alla condizione preesistente come unica soluzione allo squilibrio di potenza europeo. La firma del Trattato, dunque, era necessaria per non prestare il fianco a soluzioni ben peggiori di quanto fosse già sul tavolo.
Chiarimenti utili e preziosi giungono anche nella sezione dedicata a uno dei temi più caldi del Trattato di Versailles, ovvero la presunta «colpa» storica e morale per l’origine del conflitto che il testo avrebbe attribuito esclusivamente alla Germania. Il tema avrebbe dominato il dibattito anche all’indomani della firma, esacerbato gli animi delle piazze, unito nella sua condanna l’intero spettro politico tedesco, per finire sfruttato dalla propaganda nazionalsocialista e dalla sua insistenza sulla revisione unilaterale dell’ordine di Versailles. Senonché, Conze ricorda come quel termine non sia contemplato nel testo del Trattato e soprattutto nel contestato articolo 231, che invece introduce il concetto di «responsabilità» tedesche (a cominciare dalla brutale occupazione dei neutrali Belgio e Lussemburgo in spregio al diritto internazionale) come fondamento per la richiesta delle riparazioni. Secondo l’autore, la strategia tedesca di isolare il tema e di spostarlo sul terreno morale si sarebbe rivelata fallimentare: il conseguente irrigidimento della posizione alleata avrebbe cancellato anche qualunque residua speranza di negoziare su un piano più pragmatico la riduzione delle riparazioni. In definitiva, dunque, la polemica intrapresa dalle autorità tedesche con scarso realismo finì per rivelarsi controproducente; mentre l’effimera unità dello spettro politico nel rifiuto della colpa «non contribuì alla stabilizzazione della giovane repubblica né alla sua democrazia», ma promosse al contrario un distacco collettivo dalla realtà che si sarebbe rivelato fatale quindici anni più tardi. Senza che qui vi sia la possibilità di approfondire tutti i validi argomenti portati da Conze, vale comunque la pena di riportare il suo giudizio finale sul Trattato di Versailles: certamente duro ma ben lontano da quella «pace cartaginese» cui John Maynard Keynes l’aveva equiparato. Il testo conteneva «notevoli opportunità di sviluppo», anche in materia di riparazioni, a patto che la politica tedesca provasse la propria volontà di collaborare al passaggio «da una pace di indebolimento a una pace di intesa e cooperazione a livello europeo» o persino transatlantico. Se tali opportunità non furono colte, lo si dovette sicuramente alle condizioni internazionali, ma in misura non trascurabile anche al comportamento dei governi tedeschi.
La grande attenzione dedicata alla questione tedesca non significa che il volume manchi di dar conto dell’intero processo di pace. Dal trattamento degli altri sconfitti alle diatribe tra i vincitori, dall’influenza del messianismo wilsoniano alle rivoluzioni ispirate dall’esempio bolscevico, dal crollo di quattro imperi alla nascita di nuovi Stati, dalla questione coloniale alla nascita della Società delle Nazioni, non c’è tema della Conferenza che il volume di Conze non affronti. Se ovviamente lo spazio dedicato a ciascuno di essi è variabile, per il sicuro disappunto di alcuni lettori, è altrettanto chiaro che un’operazione di simile portata e ambizione costringe a fare delle scelte e che, più che contestarle nel dettaglio, ha senso ricercarne le ragioni nelle intenzioni dell’autore. Egli, in questo caso, ha l’obiettivo di mostrare come le aspettative «tanto alte, articolate e contraddittorie» che accompagnarono la conclusione di una guerra disastrosa non potevano che rimanere deluse e generare frustrazioni durature. Per Conze, in definitiva, «la Conferenza di Parigi … non si rivelò all’altezza di una simile missione, di fronte a un quadro di attese concorrenti tanto complesso: così complesso che i politici che condussero i negoziati, e perfino le schiere di esperti e di consulenti che accompagnavano le delegazioni, ne furono sopraffatti. Non si trattava soltanto di stipulare una pace con la Germania e i suoi alleati di guerra … ma di dare al mondo intero un nuovo assetto, e negoziarlo … sotto gli occhi dell’opinione pubblica globale. … Nessuno degli attori parigini fu in grado di svincolarsi da questa pressione». E tuttavia, l’autore è altrettanto netto nel rigettare le interpretazioni che ancora oggi attribuiscono alle decisioni di Parigi ogni genere di responsabilità per quanto accaduto in seguito. Tali letture, solitamente funzionali a obiettivi tutt’altro che nobili, finiscono per sollevare gli attori dei decenni successivi dalle loro responsabilità, rendendo un cattivo servizio non soltanto alla sfera degli studi storici ma anche a quella della politica.