Reviewer Marco Mondini - Università di Padova - Isig
Citation«La cerimonia stessa fu una messinscena politica dall’elevato valore simbolico, durante la quale nulla fu lasciato al caso e nulla fu risparmiato agli sconfitti».
Alla prima pagina di 1919. La Grande illusione, Eckart Conze proietta il lettore nella Sala degli specchi della Reggia di Versailles il 28 giugno 1919.[1] La delegazione tedesca vi è stata appena convocata per firmare il testo della pace: in una via crucis penitenziale, gli inviati della nuova repubblica tedesca dovranno sfilare sotto delle invisibili forche caudine in un clima ispirato a tutto tranne che al desiderio di riconciliazione. Aver condensato già nelle pagine iniziali i tratti salienti delle strategie politiche e culturali e i desiderata dei protagonisti (vinti e vincitori) della pace di Versailles e aver presentato immediatamente al lettore non solo le dramatis personae ma anche una prospettiva per molti versi eterodossa non è l’ultimo merito dell’autore. «Lo scopo di questo libro è di rendere giustizia alle intenzioni più autentiche che animarono i negoziati parigini. La conferenza di pace del 1919 verrà considerata come lo snodo di una situazione storica aperta a molteplici esiti…» (p. 18). Al netto delle drammaturgie punitive, infatti, Conze ribadisce a più riprese già in apertura di volume che il vero obiettivo dei negoziati «era quello di riconfigurare un assetto mondiale improntato alla stabilità e alla non belligeranza, che scongiurasse nuovi conflitti e aprisse invece la via a relazioni internazionali pacifiche». Dunque, la questione centrale è capire come mai infine, i trattati che uscirono dalla conferenza di pace di Parigi suscitarono diffusamente «insoddisfazione, frustrazione e critiche, rivolte non soltanto alle disposizioni emanate ma anche a coloro che avevano diretto i negoziati» (p. 19).
Sul fatto che quella conclusa a Versailles nel 1919 sia stata (e sia tuttora) la pace più vituperata della modernità, vi sono pochi dubbi. E, per chi eventualmente ne covasse ancora, Conze propone una dettagliata ricostruzione dei giudizi negativi coniati già dai testimoni e che si sono susseguiti fino ad oggi sulle apparentemente molte colpe del trattato. In questa sorta di Begriffsgeschichte della sfortuna di Versailles, c’è spazio per valutazioni anche conflittuali tra di loro, dalle (celebri) pessimistiche profezie di Keynes sulla pericolosità di una pace punitiva al vaticinio attribuito al maresciallo Foch il quale, preoccupato dalla eccessiva generosità delle mutilazioni territoriali a danno della Germania, avrebbe lamentato la fragilità dell’«armistizio di vent’anni» (non troppo originale, per la verità: la sensazione che di lì a una generazione ci si sarebbe ritrovati a combattere un’altra guerra era persino oggetto di caricature popolari).[2] D’altra parte, in anni recenti alcune brillanti pubblicazioni hanno provveduto a fare piena luce sulle contraddizioni della Conferenza di pace del 1919. Con approcci differenti, Michael Neiberg, Giovanni Bernardini e Leonard Smith, ad esempio, hanno ricostruito egregiamente il protagonismo tanto arrogante quanto semplicistico e pernicioso della delegazione statunitense, guidata da un presidente fin troppo ispirato dalla sensazione di essere davvero un messia, o il dilettantismo e la miopia della rappresentanza italiana, o ancora la burbanza degli schiamazzanti inviati di tati neonati (serbi, sloveni e croati in prima fila), in competizione tra di loro per accampare i diritti storici più straordinari sul bottino territoriale degli imperi dissolti.
Rispetto a queste analisi, La grande illusione propone una lettura differente a livello di scala temporale e approccio. L’autore è convinto che la spiegazione del fallimento di Versailles risieda nella natura medesima della guerra, nella dimensione di quella mobilitazione culturale – «la culture de la haine» per ricordare esplicitamente la formula coniata nel 2000 da Audoin-Rouzeau e Annette Becker – che trasformò il primo conflitto mondiale nel primo conflitto totale: «è una guerra amara fino all’estremo, fino alla totale sottomissione del nemico; un conflitto in cui l’avversario viene demonizzato» (p. 41). Un conflitto che, fin dai suoi esordi, è caratterizzato dall’insistente pubblicità di obiettivi di guerra sempre più estremi, irrealistici sul piano della costruzione di un nuovo ordine continentale ma estremamente efficaci per costruire e mantenere il consenso alla crociata nazionale per la vita e per la morte, per la grandezza o il collasso. Su entrambi i fronti l’esigenza di una Siegfrieden o di una victoire intégrale è legata indissolubilmente alla necessità di compensare i lutti e i sacrifici di una comunità nazionale integralmente mobilitata per lo sforzo bellico. «L’idea di un ‘premio di guerra’ si diffuse già tra 1914 e 1915 e non poté più essere arginata fino al termine del conflitto», ricorda Conze riferendosi specificamente al caso tedesco. Ma, con alcune sfumature, ciò che Fischer definì come la «guerra delle illusioni» caratterizzò la formulazione degli obiettivi strategici di tutti i contendenti, così sfrenati in nome dell’onore nazionale da aver reso molto difficile (se non impossibile) una reale pacificazione: «Una pace di compromesso … sarebbe stata percepita e giudicata da un’opinione pubblica traumatizzata dagli eventi bellici secondo le categorie di vergogna e onore. … Non solo il nemico doveva essere sconfitto, ma era necessario che vi fosse un vincitore in grado di propugnare l’idea di un mondo senza conflitti, fondando istituzioni a tutela della pace oppure imponendo un silenzio mortale attraverso una supremazia assoluta» (p. 43). L’ossessione per la sicurezza che caratterizzò i piani postbellici (nella formulazione di quali i militari ebbero un peso spesso determinante, e che contemplavano molto spesso l’annientamento del nemico sconfitto come potenza) e il ruolo determinante di un’opinione pubblica nazionale isterica sempre più influente sul processo decisionale della dirigenza politica emergono nitidamente come gli ostacoli più importanti all’avvio di un reale processo di pacificazione.
Nella seconda parte del volume («I negoziati di pace 1919-1920»), Conze dipana con abilità la narrazione di un intreccio per certi versi schizofrenico, quello tra tutte le ambizioni contradditorie, le pretese, le utopie, i progetti di riorganizzazione globale e le isterie nazionalistiche convergenti nei mesi della Conferenza di pace. Nel farlo, dialoga con una storiografia internazionale che da ormai un quarto di secolo riflette, pur con approcci anche molto diversi, sulla questione della smobilitazione totale e delle transizioni dalla guerra alla pace, da John Horne (Démobilisations culturelles) a Robert Gerwarth (The Vanquished), da Stéphane Audoin-Rouzeau e Cristoph Prochasson (Sortir de la Grande Guerre) ad Adam Tooze (The Deluge). La constatazione che la guerra non sia finita né nel novembre 1918 né il 28 giugno 1919, ma che la transizione a ciò che una volta veniva definito «dopoguerra» sia stata molto più lenta, complessa e soprattutto fallimentare, è il denominatore comune agli studi sull’uscita dalla guerra e sulle smobilitazioni. Anche se Conze non cita sempre esplicitamente tali riferimenti, e benché il suo lessico non richiami sovente il vocabolario che i transitional studies hanno sviluppato, 1919. La grande illusione si inserisce all’interno di questo dibattito: e non c’è dubbio che lo faccia a buon diritto, anche solo considerando la notevole mole di informazioni sui tentativi di mediazione e sui progetti personali dei protagonisti della conferenza che l’autore mette a disposizione del lettore collazionando dati tratti da una letteratura vasta ma spesso specialistica, frammentata e non di facile reperimento (specialmente quella di lingua tedesca). La chiave di volta del volume, e la sua proposta più intrigante e originale, resta la rilettura della lettera del trattato al netto della sua mediatizzazione: «non era una pace cartaginese», come pure venne bollata da autorevoli commentatori già all’epoca. In effetti, l’immagine del trattato di Versailles come lo strumento crudele di una vendetta ha più a che fare con le prospettive vittimistiche degli sconfitti che con la realtà del testo. Un testo non molto più punitivo del secondo Trattato di Parigi del 1815 o della pace del 1871, che in nome delle riparazioni ricoprirono la Francia sconfitta di debiti, per ripagare i quali si dovette ricorrere a onerosi prestiti internazionali, la mutilarono di molti dei suoi territori e la sottoposero a umilianti occupazioni straniere per anni. La Germania perse quasi un settimo del suo territorio e circa il 10% della sua popolazione, ma se «non c’era dubbio che al Reich fossero state imposte dure condizioni politiche, militari ed economiche» esso restava «ancora una grande potenza», con numerose possibilità offerte dalla flessibilità stessa di molti degli articoli più vituperati del trattato (in primis quelli sulle riparazioni) e dallo spazio offerto alla nuova Germania di restare un attore stabilizzante al centro del continente europeo. Nel marzo 1919, il memorandum di Fontainebleau aveva stabilito che la pace dovesse sì rendere giustizia agli Alleati e alle loro (enormi) perdite, ma anche essere accettabile e realistica, per consentire la sopravvivenza di un nuovo establishment tedesco democratico la cui sopravvivenza era fortemente in dubbio: fu una concessione al buon senso (benché i britannici, che ne furono mallevadori, abbiano dovuto insistere non poco per placare gli spiriti più radicali del governo francese) che permise, per esempio, alla Germania di sopravvivere come Stato unitario, questione non del tutto scontata alla fine del 1918. Il problema è che la percezione del trattato fece aggio sulla sua realtà e che ciò accadde esattamente a causa della mobilitazione di massa di una cultura di guerra che nel 1919 era lungi dallo spegnersi. «I nemici rimanevano i nemici anche nell’uso linguistico»: l’effetto di Versailles sulla società tedesca fu devastante, molto al di là della sua reale portata, e la sensazione di un’umiliante e iniqua vendetta comportò una costante rimobilitazione nazionalista e antisistema che avrebbe minato le basi della giovane repubblica. Ma il ruolo negativo di una pace mediatizzata e del coinvolgimento delle masse nella gestione politica – un effetto, vale la pena ribadirlo, del loro inserimento nella vita pubblica attraverso la mobilitazione totale di guerra – non fu appannaggio esclusivo della Germania sconfitta. «Non si trattava soltanto di stipulare una pace con la Germania e i suoi alleati … ma di dare al mondo intero un nuovo assetto, e negoziarlo non già in conciliaboli segreti, ma sotto gli occhi dell’opinione pubblica globale. Gli artefici della pace erano sotto costante osservazione o, più ancora, sotto costante pressione … le autorità nazionali, così come i rappresentanti di interessi particolari, influirono direttamente – non da ultimo attraverso i mass media – sui negoziati e su coloro che li conducevano» (p. 458). Può sembrare ironico, ma in definitiva l’’ambizioso progetto di creazione di un nuovo ordine globale pacifico e liberale si infranse a causa di quella mediatizzazione di massa che aveva decretato il momentaneo successo del «wilsonian moment».
Proprio nelle pagine dedicate all’impatto nefasto della mediatizzazione sul processo di pace (Versailles ebbe la iattura di essere la prima dimostrazione di quanto sia dannoso permettere ai media di aizzare le masse coinvolgendole in affari che non possono comprendere), il volume di Conze dimostra allo stesso tempo l’originalità della sua carica interpretativa ma anche alcuni limiti. Il più evidente è lo iato tra l’ambizione di essere una storia globale della transizione dalla guerra alla pace, e l’orizzonte linguisticamente limitato della sua bibliografia di riferimento. Per non citare che il caso più evidente, nelle 567 pagine dell’edizione italiana del libro, l’Italia compare solo sporadicamente, e nella vastissima letteratura citata i riferimenti al caso italiano sono (quasi) inesistenti. In effetti, il Regno d’Italia (non esattamente un attore minore nei tormenti e nelle aporie del processo di pace) non viene nemmeno menzionato nell’introduzione, se ne accenna per la prima volta a p. 55 (insieme a Romania, Grecia e Bulgaria) e, nel complesso, si ha l’impressione che l’autore lo consideri un soggetto trascurabile. «Nell’estate 1914 tutte le potenze europee presero parte con convinzione agli scontri» (p. 39): ma l’Italia non era tra i Quattro Grandi nel 1919? Alcune sviste confermano questa sensazione. Per dirne una, l’esercito italiano non occupò i territori di nord-est e delle coste adriatiche dopo Villa Giusti «con l’intenzione di mettere le delegazioni parigine di fronte al fatto compiuto» (p. 300): era la linea d’armistizio negoziata il 3 novembre 1918 anche con il comando interalleato. Un vero peccato questa mancanza di attenzione, perché proprio il contegno sciagurato della delegazione italiana alla conferenza di Parigi è un’ottima dimostrazione del peso nefasto dell’opinione pubblica sulla gestione del processo di pace: Orlando e Sonnino interpretarono il ruolo degli imperialisti aggressivi (e dei patrioti offesi) molto più per il timore di perdere il proprio consenso elettorale che per convinzioni personali. Colpa anche dell’editore italiano. Un’introduzione scritta da uno specialista avrebbe alquanto giovato (Einaudi lo fece, affidando a Gibelli la cura italiana di Retrouver la guerre nel 2002 e fu un bene), e forse avrebbe anche evitato la cattiva resa di una traduzione a tratti sciatta ai confini dell’incomprensibile. Ma tutto ciò non diminuisce il valore complessivo di un’opera che va considerata a buon diritto tra le migliori prodotte nell'ambito della grande ondata storiografica del Centenario.
[1] E. Conze, Die Grosse Illusion. Versailles 1919 und die Neordnung der Welt, München, Siedler Verlag,1918. Nelle pagine che seguono le citazioni si intendono tratte dalla traduzione italiana: 1919. La Grande illusione, Milano, Rizzoli, 2019, anche se le due edizioni sono state utilizzate entrambe.
[2] E. Greenhalgh, Foch in Command. The Forging of a First World War General, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, p. 506.