Reviewer Cecilia Nubola - FBK-ISIG
CitationCon Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, Valeria Babini costruisce un libro di storia che si legge come un romanzo per raccontare donne diverse che hanno dato un contributo culturale, spesso fondamentale, nel periodo della Seconda guerra mondiale e nella ricostruzione del secondo dopoguerra italiano. Pur nelle loro diversità, queste scrittrici, giornaliste, letterate, costituirono una «rete intellettuale femminile che parteciperà a pieno titolo a quel processo di democratizzazione culturale del dopoguerra». Esse hanno in comune la consapevolezza che la comunicazione è impegno civile e politico, la scelta consapevole, a volte sofferta e contrastata, legata al fatto che le parole possono essere usate come armi. Sono giornaliste come Anna Garofalo, Anna Banti, Fausta Cialente, Paola Masino, Maria Bellonci, oppure scrittrici e intellettuali come Alba de Céspedes, Natalia Ginzburg, Renata Viganò, Ada Gobetti, Palma Bucarelli, Sibilla Aleramo e tante altre. A volte si sottraggono a definizioni troppo strette perché il loro è un impegno civile e culturale complessivo, a tutto tondo, che si avvale, a seconda dei momenti e delle circostanze, della scrittura e dei media disponibili, in particolare della radio, e di ogni registro letterario a disposizione, in grado di raggiungere pubblici diversificati. Queste donne di cultura non hanno bisogno di essere sottratte all’oblio; la maggior parte di loro è conosciuta, anche se non tutte al grande pubblico, ma vi era la necessità di inserirle nel circuito della letteratura e della storiografia allo stesso tempo. Per comprendere la portata e il valore delle loro vicende personali e della loro produzione letteraria e/o giornalistica i loro scritti non possono essere letti come esperienze singole, individuali, magari fuori dal comune in quanto donne, ma devono essere inseriti a pieno titolo nel più ampio panorama culturale, sociale, politico.
La riflessione sulla guerra vista dai civili e in particolare dalle donne, su ciò che aveva comportato in termini di dolore, di perdite, ma anche idi scelte e di comportamenti attivi, accomuna molte scrittrici e giornaliste come Garofalo, Ginzburg, Viganò. Le donne, come la più recente storiografia ha mostrato, non furono solo «staffette» ma spesso parteciparono in prima persona alla lotta antifascista e alla Resistenza imbracciando le armi, partecipando ad azioni di sabotaggio e spionaggio. D’altra parte, le scelte antifasciste, le forme di resistenza civile e di resilienza agli occupanti nazisti e al regime di Salò, comportarono anche forme di opposizione non violenta. Esempi significativi di uso della comunicazione come «arma» furono, ad esempio, le trasmissioni radiofoniche. Fausta Cialente, incaricata di redigere notiziari e commenti politici, parlò dall’emittente britannica «Radio Cairo» dal 21 ottobre 1940 al 14 febbraio 1943 per gli italiani in Nord Africa e in patria. Nel dicembre 1943 Alba de Céspedes – Clorinda – da «Radio Bari» iniziava una rubrica intitolata Italia combatte, trasmissione che continuò da Napoli fino alla liberazione di Roma nel giugno 1944. Anna Garofalo terrà la trasmissione radiofonica Parole di una donna dal settembre 1944 al 1952; di questa sua esperienza e delle esperienze e testimonianze di tante donne alle quali aveva dato la parola nel corso di otto anni, darà conto nel libro L’Italiana in Italia che uscirà nel 1956 per Laterza.
Nella Resistenza, ricorda Babini, devono anche essere inclusi comportamenti come cucinare per i partigiani, curare i feriti, segnalare la presenza di tedeschi, troppo spesso presentati nella letteratura e nella storiografia del dopoguerra come specifiche e prevedibili azioni femminili di cura, di accudimento e solidarietà, negandone l’intenzione politica; tali attività furono, al contrario, «partecipazione attiva e consapevole delle donne alla storia». L’urgenza di raccontare il tempo della guerra, dell’occupazione tedesca, della RSI, della Resistenza nasceva anche da un’esigenza precisa, quella cioè di impedire che il contributo delle donne alla nascita del nuovo Stato fosse sminuito o ignorato e di assicurarsi che fossero riconosciute come cittadine a pieno titolo, opponendosi a quella parte di società italiana che non aveva pienamente accettato la partecipazione femminile alla vita politica, la possibilità di votare e di essere votate e che intendeva ricondurle nell’ambito domestico, ai ruoli tradizionali, allontanandole dal mondo del lavoro.
Resistenza attraverso il ricordo e la memoria possono essere considerati anche quei racconti e romanzi autobiografici pubblicati durante e subito dopo la guerra da donne ebree sopravvissute ai campi di concentramento italiani e tedeschi. L’internata numero 6 pubblicato nell’ottobre 1944, racconto autobiografico di Maria Eisenstein, giovane ebrea polacca nata a Vienna, primo resoconto uscito dall’interno del campo di concentramento fascista di Lanciano. Dalle esperienze concentrazionarie nascevano anche i racconti di Frida Misul, Fra gli artigli del mostro nazista. La più romanzesca delle realtà il più realistico dei romanzi, uscito a Livorno nel 1946; Questo povero corpo di Giuliana Fiorentino Tedeschi, internata a Birkenau; Ricordi della casa dei morti di Luciana Nissim; Il fumo di Birkenau di Liana Millu, edito nel 1947; A24029 di Alba Valech, uscito a Siena nel 1946.
Negli anni che vanno dal 1945 al 1948, – scrive Babini – quando calerà il silenzio sulla storia dello sterminio, le voci italiane che non vollero tacere furono solo di donne, se si eccettua la testimonianza di Primo Levi.
«Anche le donne uccidono»: il tema della violenza femminile agita, declinato nei suoi molteplici aspetti, occupa una parte centrale del volume della Babini. Due romanzi simmetrici la rappresentano in maniera a un tempo esemplare e disturbante. Sono È stato così di Natalia Ginzburg e Dalla parte di lei di Alba de Cespedes: il primo si apre con uno sparo, l’altro con uno sparo si chiude. In entrambi i casi protagonista è una moglie che giustizia il marito. Alla finzione letteraria corrispondevano i frequenti casi riportati nella cronaca nera di quegli anni in cui la protagonista, l’assassina, è una donna che ha ucciso per i motivi più vari: ha difeso il proprio «onore», ha reagito alla violenza o al disprezzo di mariti e fidanzati, ha ucciso per interesse o, forse, per il piacere di uccidere.
«Adesso non paghe di una minacciosa superiorità numerica, non paghe d’essere pervenute a una pari dignità, adesso le donne ricorrono alle armi, uccidono con una facilità impressionante» – scriveva con stupita preoccupazione e ironia il giornalista Libero Bigiaretti.
Donne e uomini criminali nei primi decenni della Repubblica non furono tuttavia giudicati in tribunale da donne che, persa la battaglia alla Costituente, dovranno attendere il 1963 per poter accedere alla Magistratura. Sarà un ulteriore, fondamentale, passo verso l’emancipazione femminile: la tappa di una storia controversa e non ancora conclusa né pienamente ricostruita.