III, 2020/2

Vincenzo Lavenia

Dio in uniforme

Review by: Fernanda Alfieri

Vincitore del Premio Paolo Prodi 2019

Authors: Vincenzo Lavenia
Title: Dio in uniforme. Cappellani, catechesi cattolica e soldati in età moderna
Place: Bologna
Publisher: Il Mulino
Year: 2017
ISBN: 9788815273253
URL: link to the title

Reviewer Fernanda Alfieri - FBK-ISIG

Citation
F. Alfieri, review of Vincenzo Lavenia, Dio in uniforme. Cappellani, catechesi cattolica e soldati in età moderna, Bologna, Il Mulino, 2017, in: ARO, III, 2020, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2020/2/dio-in-uniforme-fernanda-alfieri/

PDF

Dio in uniforme non tratta solo di cappellani militari, di catechesi cattolica e soldati in età moderna, come indica il sottotitolo. Ovvero, non ricostruisce solo la nascita di una figura specifica, dotata di mansionario e missione precisamente definiti, cioè il cappellano militare, e, insieme ad esso, di un’altra figura cui quest’ultimo è legato in modo inscindibile, quella del soldato cristiano inteso come individuo guidato da una coscienza, persona e non bestia. Seguendo il modellarsi di queste due professioni (che sono anche ruoli, tipi umani, e soprattutto modelli disciplinari), attraverso la ricchissima letteratura sul tema generata tra XVI e XIX secolo, spesso partendo da queste esperienze, e finalizzata a un lavorìo incessante di addestramento di entrambe le figure, Dio in uniforme ci parla, in realtà, del dispiegamento senza precedenti di uomini e saperi con i quali le gerarchie dell’Europa moderna si impegnarono – attraverso i loro intellettuali religiosi al servizio della politica, i teologi – a costruire e consolidare un’idea, tradotta in pratica, di guerra santa e giusta, impresa che il libro ci presenta nella sua dimensione trasversale rispetto ai confini politici, confessionali e cronologici. Per mobilitare e legittimare questa idea si sono infatti chiamati in causa, facendoli transitare attraverso i secoli, da un territorio all’altro, da un sapere all’altro, da una confessione all’altra, modelli e formule provenienti dal repertorio della classicità pagana, dell’Antico Testamento, della patristica, dell’agiografia medievale e moderna. Alessandro Magno, Goffredo di Buglione, Ignazio di Loyola continuano a vivere fino a Ottocento inoltrato come modelli incontestati del soldato ideale; allo stesso modo sopravvive – ma come oggetto di polemica – l’idea di Machiavelli, secondo cui i valori cristiani indeboliscono il soldato. La ritroviamo ancora, per essere nuovamente confutata, nell’opera del gesuita Giovanni Regoli compilata in piena Restaurazione. Ha lunga vita anche lo spettro dell’islam, che, evocato e rinfocolato nella pubblicistica fiorita intorno alla battaglia di Lepanto, riemerge fino al catechismo scritto da Gaetano Picconi, cappellano delle truppe pontificie, nel 1850. I calchi primari, positivi e negativi, si mescolano alle parole e alle immagini del presente in cui vengono evocati e riutilizzati, prendendo nuova vita. E questo appare particolarmente evidente a partire dalla metà del XVIII secolo (nella Sattelzeit in cui le vecchie parole si risignificano e ne emergono di nuove) quando si affaccia nella letteratura per cappellani e soldati un vocabolo inedito: humanité. Ecco allora il gesuita Pierre-Antoine-Alexandre Daguet, che scrive i suoi Exercices chrétiens nel 1759, riprendere le raccomandazioni di routine che ritroviamo, da almeno due secoli, nei testi per soldati: stare lontani dal gioco, dal bere, dalle donne, evitare gli eccessi, e soprattutto la violenza gratuita. Ma se non è lecito fare scempio del nemico, ciò risulta ora stabilito in virtù di un principio mai evocato prima di allora: il rispetto per la dignità dell’umano, di qualunque religione, etnia, nazione esso sia. Allo stesso modo, il testo varato in Spagna dall’Ufficio centrale della guerra nel 1780 evocherà le leyes de humanidad per scoraggiare la violenza arbitraria, invocando a baluardo degli eccessi l’uso della ragione (altro concetto risignificato che fa capolino).

 

Benché disseminato di morti, il paesaggio – immaginario e materiale – che prende forma davanti agli occhi del lettore è quindi quanto mai vitale e in movimento. È concretamente dinamico il setting specifico che il libro osserva, attraverso la letteratura prodotta da e per i cappellani militari e i soldati, nutrita di esperienza diretta. Il campo di battaglia e l’accampamento sono realtà costitutivamente in viaggio, sganciate da qualsiasi ancoraggio alla dimensione territoriale della comunità: parrocchie, famiglie, corporazioni, comunità di affetti e di produzione di beni. Una realtà, inoltre, costitutivamente plurale, spesso plurilingue, talvolta multiconfessionale (per esempio, i protestanti nell’esercito sabaudo nel XVIII secolo) e intrinsecamente conflittuale. Quegli uomini, infatti, sono lì in virtù di uno scontro necessario e inevitabile. E, nella mutevole geografia politica e confessionale dell’Europa di questi quattro secoli di storia, se vi è qualcosa che non viene mai meno è proprio il conflitto, la costante più evidente e spettacolare nel suo manifestarsi e nelle sue conseguenze e qui, in Dio in uniforme, centrale nella trattazione. È attraverso il conflitto che il paesaggio – qui soprattutto europeo – ridisegna i suoi confini politici, confessionali, e sociali. Molte sono le forme che assume, che gli studi precedenti di Vincenzo Lavenia hanno contribuito ad illuminare. Mentre le chiese prendevano parte, promuovendolo, al conflitto bellico contro l’alterità religiosa, lo stesso clero impegnato in quell’incitamento ingaggiava una lotta senza precedenti contro altre alterità confessionali e comportamentali: non solo eretici e infedeli, ma anche sodomiti, streghe e possedute. Non era solo a colpi di archibugio che si combatteva contro l’Altro, ma anche a suon di processi nei tribunali – per l’Europa cattolica, nei tribunali dei vescovi e delle inquisizioni (iberiche, portoghese, romana) – e sulle piazze a suon di predicazioni, nei monasteri a suon di esorcismi, nei confessionali a suon di penitenze.

In questo scenario di chiamate alle armi, di passaggi di eserciti, stragi, incendi e naufragi, evocato da Dio in uniforme, prende forma – quasi con discrezione, perché si tratta di un fatto meno spettacolare di quelli fin qui evocati ma non per questo privo di effetti – un’idea astratta solo all’apparenza, perché funzionale a dare un ordine alla scena intrinsecamente convulsa della battaglia: il soldato cristiano. Non è l’età moderna l’epoca che vede per la prima volta un discorso su come deve essere – ovvero, come deve comportarsi – il soldato. Già l’antichità pagana lo aveva immaginato e voluto come dedito ai valori del coraggio e al contempo del sacrificio per la causa ultima. Il cristianesimo, oltre all’orizzonte del campo di battaglia – che è orizzonte contingente della vita terrena, destinata a finire magari proprio lì – gli avrebbe assegnato, in più rispetto al soldato pagano, l’orizzonte infinito della vita ultraterrena. Questo avrebbe conferito al soldato, da un lato, una dignità nuova: l’anima immortale di cui lo si predica dotato, in quanto essere umano, lo rende degno di salvezza, che è (per i cattolici) tutta da guadagnare. Dall’altro, gli avrebbe assegnato il dovere di salvarsi, e di realizzare una parte di sé che, sempre in quanto essere umano, ha ricevuto in dotazione: la ragione. È vero che, come scrive Sancho de Londoño alla fine del XVI secolo, i soldati sono spesso «idioti e irregolari» (p. 15), ma questo non significa che debbano morire come tali. La visione dell’umano che prende forma nella prima età moderna, e che qui vediamo applicata al dover essere del militare, se da un lato eleva, dall’altro impone una presa di responsabilità a soggetti per secoli considerati alla stregua di bestie da macello. Questo movimento di umanizzazione e responsabilizzazione, che la categoria di disciplinamento, evocata nell'introduzione, può ancora restituire pienamente, è dovuto alla commistione delle fin qui richiamate virtù classiche e cristiane con il pensiero e l’azione di uomini (anche nel senso di maschi, e su questo si tornerà): in primis Ignazio di Loyola, Giusto Lipsio, Thomas de Sailly. Vi è un luogo specifico in cui l’incontro – reale e virtuale – tra loro si consuma: le Fiandre. Formatosi presso le scuole gesuitiche (dunque di un ordine fondato dal soldato Ignazio, e che si chiama «Compagnia» come l’unità militare), Lipsio scrive nelle Fiandre sconvolte dal conflitto tra i ribelli dei Paesi Bassi e le truppe degli Asburgo di Spagna. Ispirato dalla riscoperta di Seneca, scrive della necessità che quello del soldato non sia un mestiere mercenario e saltuario, ma una condizione di vita, fondata su un addestramento costante, nella forza e nella virtù. L’essere umano, anche il più bestiale, può essere modellato sino alle radici più profonde del suo essere. Non interessa la sua individuale eccezionalità, ma la sua capacità di conformarsi. Così il soldato, che vive, come già osservato, in una realtà mobile che disancora da qualunque forma di appartenenza, se non alla causa che deve servire, può e deve essere un «professionista sobrio, addestrato e religioso» (p. 26). Ancora, è nelle Fiandre che il gesuita Thomas Sailly, confessore di Alessandro Farnese, viene posto a capo della missione militare, la prima ad avere un cappellano stabile. Per lo stesso editore Plantin, per cui erano usciti i Politicorum libri sex di Lipsio (1589), sarebbe uscita a distanza di un anno la sua guida spirituale per i soldati cristiani, fondata sull’idea della loro educabilità, sulla fiducia di un loro recupero all’umanità che passa necessariamente attraverso l’irreggimentazione. Se dalle Fiandre prenderà forma questa idea, che si concretizzerà nella disciplina morale e spirituale attuata dai cappellani e si espanderà nei secoli a venire a colpi di libri stampati e di sermoni, un altro luogo cruciale è da evocare: Trento. È qui che, pochi anni prima, si sono poste le basi per la riorganizzazione della disciplina cattolica dall’età moderna per i secoli a venire. Anche se il campo di battaglia non fu direttamente oggetto di normativizzazione (così come non lo fu molto altro che la storiografia ascrive allo slancio tridentino, come, per esempio, le missioni), qui prese forma un’idea di pastorale che accentra nelle mani del vescovo e del parroco l’amministrazione e la cura delle anime, ideale su cui si plasma il modello di governo del cappellano militare. E qui prese forma un’idea di fedele ancorato alla dottrina cattolica dalle profondità della coscienza.

Al cappellano/pastore e al soldato cristiano si chiedono cose molto simili: di essere totalmente devoti a una causa (religione e guerra santa), totalmente sganciati dal mondo (affetti e famiglia), di sottoporsi al controllo, effettuato da altri (gerarchicamente superiori) e da loro medesimi (autodisciplina). Ovviamente vi sono differenze: pena l’irregularitas, i cappellani non possono uccidere, né procurare fuoriuscita volontaria di sangue (salvo che non abbiano ricevuto licenza di procurare salassi. Il membro del clero deve essere al contempo dentro il campo di battaglia, ma senza mescolarsi con esso. La sua dignità speciale deve inoltre trasparire anche da come si contiene, da come conduce il suo corpo, lo veste, lo lava. Anche al soldato viene richiesto di essere composto, nell’anima e nel corpo: deve confessarsi regolarmente, e per questo esaminare la propria coscienza, uno spazio di profondità interiore che richiede una manutenzione regolare. E custodire il proprio corpo senza abusarne, ovvero non può uccidersi né amputarsi a proprio piacimento. Può capitare di trovare nei testi citati in Dio in uniforme questioni curiose: un soldato può cavarsi i denti e usarli come proiettili? (così il teatino Francisco Cespedes, Dubia conscientiae militaria, 1643). Sullo sfondo di questa domanda, che sulle prime può fare sorridere, vi è il grande dibattito, ricorrente nei coevi trattati De iustitia et iure, sulla proprietà di sé: quanto siamo liberi di disporre di noi stessi? Quali parti del corpo sono da considerare membra, ovvero vitali, e quali altre sono superflue, mero prodotto dell’esubero di sangue? Se di capelli, unghie, denti, sudore possiamo liberarci serenamente, lo stesso non vale per gli arti, salvo che l’amputazione non serva a prevenire una cancrena mortale. Come ogni essere umano, il soldato quindi non è proprietario di sé: è un anello della grande catena della specie, ed è tenuto per questo a vivere; ma è anche a disposizione di chi lo manda a combattere una guerra santa e giusta, e l’uso del suo corpo è finalizzato in primis a questa causa. Infine, essendo dotato di anima razionale, quindi immortale, e di coscienza, che contiene una scintilla di divino, i suoi comportamenti non devono ostacolare una disposizione alla trascendenza propria di ognuno. Per questo, dalle sue labbra non devono sfuggire bestemmie né l’esuberanza naturale della carne sfuggire al controllo. È principalmente qui, sull’uso del corpo in relazione alla sessualità, che si colloca il discrimine fondamentale fra lui e il cappellano: nel mondo cattolico, il cappellano è tenuto al celibato (alla rinuncia totale), il soldato alla continenza (al controllo rinunciatario). Tuttavia, per entrambi la base della loro forza si definisce in relazione a un altro nemico, l’Altro fondamentale – più altro dell’eretico, dell’infedele, del nemico militare: la donna. La donna è apparentemente la grande assente di questa storia i cui protagonisti si direbbero essere esclusivamente uomini, tuttavia ha un ruolo cruciale. Il suo fantasma è strumentale alla costruzione del valore militare perché è anche evitando di essere come lei, ed evitando gli eccessi nel contatto con lei, che il soldato/bestia diventa il soldato uomo/cristiano. Questo emerge sfogliando le sezioni relative alla disciplina carnale della ricchissima letteratura che Dio in uniforme porta alla luce. Come vuole l’episteme medica di senso comune su cui si affronta la fisiologia della carne nelle guide spirituali (ad uso diretto dei soldati o destinate alla mediazione dei cappellani, con conseguenti livelli diversi di complessità e dettaglio, specie riguardo a tali questioni), il corpo maschile si distingue da quello femminile per anatomia e per calore. Quest’ultimo elemento gioca un ruolo fondamentale nel tracciare il confine fra i sessi: un eccesso di pratica sessuale, infatti, potrebbe raffreddare il corpo del soldato avvicinandolo alla scarsa quantità di calore propria del corpo femminile. È così che «luxuria enervat effeminatque» (sempre Cespedes). Ma i cappellani autori delle guide sanno – per esperienza diretta e per un senso comune della fisiologia che affonda le sue radici nella medicina classica – che i corpi degli uomini che sono chiamati ad ammaestrare sono dotati di un calore particolare, dovuto allo stile di vita che conducono, ragion per cui, più di altri, hanno necessità di donne. Gli stupri delle donne civili che le truppe commettono sistematicamente, una piaga che troviamo evocata trasversalmente negli autori citati, ne sono la riprova. Tuttavia, per quanto deprecabile, per gli estensori delle guide spirituali questo non è il male estremo. Molto peggio è se l’oggetto dell’esuberanza sessuale dei soldati sono i propri commilitoni. Come emerge dagli studi di Vincenzo Lavenia sulla criminalizzazione della sodomia nell’Europa moderna, la peggiore degradazione, tale da rendere infame l’uomo che la commette, nemmeno degno di essere chiamato per nome, è infatti il farsi donna. A scongiurare questa evenienza si arriva non solo attraverso la disciplina della carne, ma anche attraverso quella dello spirito, da dosare tanto nei difetti quanto negli eccessi. Potrà capitare che un cappellano militare si imbatta in un soldato dalla fede particolarmente fervida. Dovrà quindi invitarlo a moderarsi, avvisandolo che quella sua particolare pietà potrebbe essere intesa come mollezza femminile, la quale, in una cultura in cui l’esteriorità riflette l’interiorità, può rinviare a una natura effemminata nella sostanza.

Il campo di battaglia è un laboratorio straordinario che, nella disputa quotidiana ed emergenziale fra la vita e la morte, produce regole destinate a fissarsi in un corpus stabile e onnicomprensivo nelle sue ambizioni, tendente a normare le questioni apparentemente più minute così come quelle universali. Si realizzò il progetto di umanizzazione e addomesticamento del soldato di professione? La risposta è difficile a darsi, e forse non necessaria. Il disegno disciplinante, a prescindere dalla piena realizzazione delle attese, ha infatti sempre una sua efficacia. Come osserva opportunamente l’autore nell'introduzione, «i progetti e le idee regolative hanno la capacità o la pretesa performativa di disegnare il corpo sociale». Interrogarsi sul loro prendere forma non serve solo a illuminare snodi cruciali per la storia dell’Europa moderna, ma anche ad aiutare «a capire come si manifestano e si occultano oggi i dispositivi disciplinari del mondo liberale» (p. 23).

 

* Una versione preliminare di questo testo è stata presentata in occasione della discussione del volume tenutasi il 27 febbraio 2019 nell’ambito del ciclo di seminari «Connessioni globali in età moderna», presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità, Università degli Studi di Padova.

Subscribe to our newsletter

Partners