Reviewer Giovanni Florio - Università di Padova
CitationPrecondizione necessaria per qualsivoglia approccio storiografico comparativo e di lungo periodo è l’applicabilità del medesimo problema ai diversi casi e congiunture presi in analisi. Nessuna comparazione, dunque, può ritenersi legittima senza un tertium comparationis al quale ricondurre i fenomeni storici presi in esame. In estrema sintesi, si potrebbe concludere che non è possibile comparare ciò che non è comparabile: una tautologia, certo, ma che sarebbe fuorviante dare eccessivamente per scontata. Da questo punto di vista la scelta di Serena Ferente, Lovro Kunčević e Miles Pattenden di consacrare una curatela alle Cultures of Voting in Pre-Modern Europe risulta particolarmente felice e, quel che più conta, metodologicamente corretta: pochi problemi come quello dell’assunzione di decisioni in forma collettiva hanno attraversato – e continuano ad attraversare – la storia dell’umanità. A rigor di logica non servirebbe nemmeno uscire dall’alveo delle scienze sociali né chiamare in causa studi sui comportamenti sociali dei babbuini (p. 2) per sostenere la validità di un simile assunto. La possibilità stessa di riunire venti specialisti intorno al medesimo titolo e di coprire in tal modo due millenni di storia culturale del voto ne dà efficace prova: si vota, ovviamente, in quel laboratorio politico che fu la Grecia classica così come nella Roma repubblicana (Paul Cartledge; Valentina Arena); votano – nelle loro diverse declinazioni gerarchiche e territoriali – tanto la cristianità medievale quanto la cattolicità pre-tridentina (Cristina La Rocca e Francesco Veronese; Vesselina Vachkova; Alexander Russell; Miles Pattenden; Letizia Arcangeli); si vota, ancora, nel Mediterraneo dei comuni e delle repubbliche cittadine (Andrea Guidi; Nella Lonza; Lorenzo Tanzini; Serena Ferente; Lovro Kunčević) così come nell’Europa delle grandi monarchie e delle istituzioni parlamentari (Wyger Velema; Pierluigi Terenzi; Vicent Baydal Sala; Brian Sandberg); si vota anche al di fuori – o ai margini – delle sfere che, per pura necessità di sintesi, ci limitiamo a definire come Stato e Chiesa (Zrinka Pešorda Vardić; Alexander Osipian; Claire Judde de Larivière; Derek Hirst). Al netto dell’ubiquità e della permanenza del fenomeno, ciò che cambia è il significato attribuito al voto attraverso i secoli e nei diversi contesti o, per dirla con Serena Ferente, «the cultural prominence of voting in each society» (p. 3). Nell’ottica dei curatori è l’esistenza di queste varianti a legittimare la declinazione plurale dell’oggetto di ricerca: cultures of voting, dunque, e non culture, per quanto la possibilità stessa di ricondurre i diversi casi studio in un’unica opera collettanea alluda all’esistenza di una qualche costante al di là delle singole varianti.
Siamo quindi di fronte a un tema diacronico, transculturale e transnazionale, che tanto si presterebbe a una lettura in linea con gli stimoli che, con sempre maggior frequenza, ci vengono proposti dalle più aggiornate tendenze in ambito di global history: per quanto lucidamente vagliata dai curatori («A consideration of pre-modern cultures of voting in a global context would be an obvious and exciting next step», scrive Serena Ferente a p. 7), sarebbe scorretto cercare una simile impostazione interpretativa in un volume scritto a più mani, privo – purtroppo – di una sintesi conclusiva e, soprattutto, dai limiti cronologici e geografici onestamente dichiarati sin dalla copertina. La «pre-modern Europe» è il contesto in analisi, per quanto gli interrogativi sottostanti al progetto editoriale nascano da un’attenta osservazione di un presente quanto mai globale, un contemporaneo in grado di mettere radicalmente in discussione la nozione stessa di cultura del voto, se non la sua esistenza. Come dichiarato da Serena Ferente sin dalle primissime righe dell’introduzione, è la più stringente attualità a rendere urgente una riflessione storiografica sulla pratica e sulla teoria del voto intese come momento di legittimazione di scelte politiche assunte in forma collettiva o, quanto meno, a nome di una collettività (pp. 1-2). È pur vero che il contatto con questa contemporaneità così gravida di interrogativi tende a sfumarsi tra le pagine della curatela; d’altro canto, non si può dimenticare come il volume in questione sia l’esito di un progetto di ricerca e di due convegni ad esso correlati (p. 7) che nel periodo che si estende «from Antiquity to the late eighteenth century» (p. 2) hanno visto il loro focus principale. Alla stessa ragione si deve ricondurre una certa declinazione mediterranea di quell’Europa evocata nel titolo del volume: su venti articoli, almeno quindici riguardano contesti geopolitici mediterranei e, volendo raffinare la statistica, di questi quindici contributi quattro sono riconducibili all’area adriatica. Traspare, in questo, il contributo progettuale di Lovro Kunčević: la vicenda istituzionale della Repubblica di Ragusa (odierna Dubrovnik) si conferma ancora una volta un caso studio di indubbio valore euristico a dispetto dell’intermittente interesse riservatogli dalla storiografia internazionale.
È, in ogni caso, la penisola italiana a porsi al centro dell’Europa mediterranea tratteggiata a più mani, contributo dopo contributo, all’interno del volume: si fa sentire, in questo, la forza gravitazionale esercitata dalla Chiesa di Roma e dal Papato, ma pesa altresì l’affinità tra l’oggetto ultimo della curatela (la cultura del voto) e una mai sopita riflessione sulle radici italiche e rinascimentali di una ben definita filiazione repubblicana. Implicito e indiretto, il confronto con il dibattito ingaggiato da John Pocock e Quentin Skinner costituisce il più impercettibile dei molti fili rossi che attraversano la curatela. Evocato a un quarto del volume, il pensiero di un inedito Machiavelli riformatore esorta il lettore a una più compiuta riflessione sulle correlazioni esistenti tra forma di governo, partecipazione politica, cultura del voto e libertà: così collocato, il saggio di Andrea Guidi contribuisce da un lato a una ulteriore concettualizzazione di un problema definito come centrale sin dal capitolo introduttivo, dall’altro ad armonizzare la cesura imposta dai curatori tra la prima parte del volume (dedicata a «ideas and representations») e la seconda (dedicata a «practices, institutions, procedures»). Speculare per funzione e collocazione risulta l’articolo di Serena Ferente: un contributo nominalmente dedicato alla Genova tardo-medievale ma, di fatto, foriero di una acuta riflessione sull’applicabilità del concetto di partito al di fuori di contesti politici pluralistici e liberali.
Si diceva della divisione del volume in due parti: una cesura piuttosto labile considerato l’apprezzabile equilibrio argomentativo che caratterizza i singoli interventi e, di conseguenza, l’opera nel suo complesso. La dialettica tra pratica del voto e sue idealizzazioni, tra contingenze pratiche e rappresentazioni di lunga durata caratterizza ciascuno dei saggi contribuendo – aspetto non secondario – a conferire una certa piacevolezza a una lettura di alto profilo storiografico. Le idee e le rappresentazioni oggetto della prima parte del volume riflettono e al contempo informano esperienze di voto quanto mai concrete; di contro, per come sono considerate nella seconda parte dell’opera, le pratiche non risultano mai avulse da specifici repertori di rappresentazioni performative dei quali, al contrario, si costituiscono come parte integrante: in questo costante equilibrio dialettico è misurabile l’efficacia della proposta interpretativa avanzata dai curatori e, con essa, la bontà dell’auspicato superamento – in senso socio-culturalista – dei limiti insiti in un certo modo di intendere la storia istituzionale del voto. Un superamento, tuttavia, senza abiura: non è, infatti, il valore euristico delle istituzioni e delle fonti istituzionali ad essere messo in discussione dal volume, ma gli interrogativi loro rivolti dagli storici così come le metodologie applicate alla loro analisi. Per gli autori coinvolti, infatti, non si tratta più di ricostruire una storia delle pratiche del voto sulla base di evidenze documentarie né di sviscerare le idee e le rappresentazioni del voto sottostanti a tali attestazioni: al contrario, si tratta di apprezzare l’esistenza di una specifica cultura del voto identificandola con lo spazio dialettico definito dall’interrelazione di ognuna di queste componenti.
Attenta alla materialità del documento – e, in senso lato, alla storia della cultura materiale –, la proposta avanzata dai curatori – e recepita in toto dai diversi autori – investe a pieno titolo anche il campo dell’esegesi della fonte: dietro la laconicità dei testi normativi (Alexander Russell; Zrinka Pešorda Vardić) e l’anonimità delle registrazioni di voto (Nella Lonza), dietro la ridondanza delle liste elettorali (Serena Ferente) e lo stereotipo della formula giuridica (Lorenzo Tanzini), dietro la sola presenza (Cristina La Rocca e Francesco Veronese; Pierluigi Terenzi) o la studiata assenza di tali attestazioni (Miles Pattenden), la dialettica conflittuale sottostante alla definizione di qualsivoglia cultura del voto traspare in tutta la sua vivace complessità.
Con l’intento di facilitare la lettura di questa complessità, è la principale curatrice a sottoporre all’attenzione del lettore la presenza di alcuni nodi critici collocati all’intersezione tra le diverse linee interpretative avanzate dai singoli autori. In primo luogo, l’opera nel suo complesso finisce col mettere radicalmente in discussione una lettura eccessivamente deterministica del nesso – esistente? – tra evoluzione dei sistemi di voto e sviluppo democratico. In un libro destinato ad 'addetti ai lavori' è quasi pleonastico – ma non certo scorretto – ribadire come pratiche e teorie del voto abbiano conosciuto un florido sviluppo – se non avuto origine – anche in contesti autocratici, teocratici e aristocratici, ergendosi non di rado a garanzia ultima di sistemi politici fondati – in nuce – sul privilegio, sulla distinzione e sull’esclusione. È da questa prima osservazione che muove il secondo e più rilevante snodo critico del volume: il voto, per come è inteso in età pre-contemporanea, si propone in primo luogo come momento di creazione di élites decisionali e di definizione, in senso esclusivo, della loro identità. In altri termini, l’esclusione di soggetti altri dalla pratica del voto definisce, di volta in volta, l’esistenza di élites deliberative più o meno ampie contribuendo, al contempo, a enfatizzare l’unità al loro interno. Studiare la cultura del voto in età pre-contemporanea significa studiare le risposte date, nei secoli, a questa costante tensione dialettica tra distinzione (rispetto all’esterno) e uguaglianza (all’interno del gruppo votante), tensione che, nell’economia del volume, si fa ulteriore oggetto d’analisi oltre che strumento e principio interpretativo del fenomeno.
«Voting is intimately associated to division» scrive Serena Ferente in un illuminante passaggio dell’introduzione: «most pre-modern cultures of voting were especially preoccupied with containing the divisive effects of votes and elections and consistently resorted to widely shared discursive repertoires against discord, faction and civil conflict» (p. 6). Segretezza e sorteggio, anonimità e ritualizzazione sono le strategie, adottate o rifiutate, messe in campo per contenere – o enfatizzare – gli effetti divisivi del voto e che, come ci ricorda la curatrice, emergono puntualmente nei diversi contesti presi in analisi nel volume. La diversa gradazione con cui tali strategie vengono attuate e, ancora, lo iato esistente tra la loro teorizzazione e la loro applicazione non esauriscono, certo, la problematica definizione di cultures of voting; ciò nondimeno, posta l’ubiquità del voto nel mondo pre-contemporaneo, tali variazioni possono essere assunte come un indicatore – l’auspicato tertium comparationis – funzionale ad apprezzare la rilevanza culturale assegnata al voto in un determinato contesto sociale. Se tale incoraggiante proposta d’analisi possa davvero essere applicata a contesti contemporanei resta, tuttavia, una questione aperta: da questo punto di vista c’è da sperare – con i curatori – che il volume funga da stimolo per nuovi contributi sul tema, intersecando con maggiore decisione una rinnovata istanza di storicizzazione del concetto di rappresentanza.