Reviewer Katia Occhi - FBK-ISIG
CitationMauro Agnoletti, docente di storia del paesaggio e dell’ambiente all’Università di Firenze, in questo volume delinea una storia del paesaggio forestale italiano e dei suoi molteplici mutamenti, sottolineando l’influenza dell’antropizzazione e dei diversi tipi di organizzazione del territorio, frutto di scelte spesso in concorrenza tra loro. Nonostante la complessità del tema, reso ancora più difficile dall’ampiezza dell'arco temporale preso in esame, l’autore inquadra una serie di questioni sempre attuali e oggi di rinnovato interesse, anche per la ripresa di una marcata sensibilità ambientale. Grazie alla prospettiva storica emerge con chiarezza la problematicità del rapporto uomo/ambiente imperniato tra le istanze di utilizzo e quelle di conservazione. Si tratta di temi ai quali la storiografia italiana aveva dedicato alcuni studi rilevanti, dalla Storia del paesaggio di Sereni, ai volumi dedicati all’ambiente come fornitore di risorse e di energia di Caracciolo-Morelli e di Malanima fino al più recente volume collettaneo curato da Alfani, Di Tullio, Mocarelli sulla storia economica dell’ambiente italiano [1].
Partendo dall’epoca protostorica, cui è dedicato il primo capitolo, Mauro Agnoletti mostra come le diversità di utilizzo del bosco abbiano contribuito a dare vita a una complessità del paesaggio, che oggi si è fortemente ridotta. Andando a ritroso nel tempo l’autore affronta i temi della gestione pubblica e privata, di tutela e di sfruttamento di un patrimonio che è ancora oggi di notevoli dimensioni.
Il secondo capitolo si occupa in particolare dell’età romana e post-romana e documenta come nei primi secoli dopo Cristo un’alta densità di popolamento avesse condotto a una diffusa agrarizzazione tanto che già allora le “foreste vergini” scarseggiavano (p. 31). Solo in epoca alto-medievale il bosco riprese possesso di ampie aree e a tale fase risale l’introduzione delle “bandite”, aree di caccia riservata anche su beni pubblici dove in precedenza le popolazioni esercitavano il diritto di legnatico e pascolatico. Questi luoghi del “foris stare”, accessibili solo alla nobiltà, divennero numerosissimi e contribuirono sì alla conservazione dei boschi, ma a detrimento delle popolazioni e dello sviluppo dell’agricoltura (p. 47). Nel terzo capitolo l’autore affronta il tema dei boschi da pascolo e dei pascoli arborati soffermandosi sul ceduo, la forma forestale più duttile e diffusa in Italia, soprattutto a quote medio-basse, nelle fasce collinari e in pianura. Una tipologia che richiedeva una presenza attiva dell’uomo anche per il suo ruolo nell’agricoltura.
Nelle economie preindustriali il bosco fu un abbondante produttore di fonti energetiche e di materiali da costruzione, come viene illustrato in dettaglio nel quarto capitolo. Agnoletti esamina qui in particolare i boschi da marina e mostra come la richiesta di legname per le flotte abbia influenzato il paesaggio forestale italiano da nord a sud. In particolare, nello Stato veneziano l’organizzazione delle costruzioni navali e la gestione dei boschi destinati alla cantieristica non ebbe uguali. Il caso del bosco del Cansiglio riservato all’Arsenale è esemplificativo di come i piani di gestione e di organizzazione forestale e di modellamento del bosco fossero regolati dalle mutevoli esigenze produttive del governo veneziano. In nessuno degli altri arsenali italiani (Genova, Pisa, Napoli) si arrivò a organizzare la selvicoltura con tecniche volte a migliorare le condizioni dei boschi riservati come si fece in area veneta (p. 111). In altri casi, come quello toscano, il bosco fu frutto di pratiche agro-silvo-pastorali e solo nel Settecento si introdussero i censimenti dei boschi da marina, che risultano però modellati sostanzialmente sulle necessità dei pascoli (p. 130). Le pinete litoranee toscane furono infatti seminate tra Seicento e Ottocento, sostituendo i querceti, per costituire una fascia di protezione delle colture agricole contro il vento e il movimento delle sabbie.
Le 911 galere militari messe in mare a Venezia tra il 1504 e il 1602 vennero allestite con il legname proveniente dai boschi, riservati e non, che affluiva dalle Alpi orientali, dall’interno e dall’esterno dei confini politici veneziani, tema cui è dedicato il quinto capitolo. Sulla base dei diagrammi pollicini, Agnoletti precisa come i tagli intensi abbiano trasformato la composizione del bosco di queste aree: le distese di abete rosso, abete bianco e faggio che avevano raggiunto presenze approssimativamente identiche attorno al Mille furono profondamente alterate in seguito alle più intense utilizzazioni forestali (p. 141).
Attorno all’economia del bosco si modellò il paesaggio delle Alpi orientali dove, a partire dal XIII secolo, vennero erette strutture per favorire il trasporto del legname verso i mercati di sbocco. Chiuse denominate "serre", "stue", "cidoli" di diverse dimensioni, temporanee o permanenti, sbarravano torrenti e fiumi dando vita a una complessa geografia dei trasporti imperniati sui corsi d’acqua, che si integravano con canali in legno o pietra (risine, cave) e mulattiere che disegnavano un multiforme reticolo, oggi pressoché scomparso, traccia di un’intensa antropizzazione delle Alpi che ha profondamente modificato il patrimonio boschivo adattandolo alle necessità della metallurgia, della cantieristica navale e dei bisogni domestici delle popolazioni. La necessità di combustibile per il settore metallurgico provocò il cambiamento nella composizione dei boschi anche in altre aree dell’Europa come è il caso dei Vosgi, nel nord-est della Francia. Così accadde nel Montello, in Cadore, nello Zoldano nelle Alpi venete, dove i boschi di faggio furono ridotti per l’intenso sfruttamento commerciale e minerario.
Oggi le tipologie forestali utilizzano classificazioni che collegano la distribuzione delle specie alla natura del suolo, all’altitudine e alle caratteristiche della specie, ma in ogni epoca storica i boschi furono determinati da pratiche selvicolturali legate a caratteristiche sociali ed economiche del tempo (p. 194). Un caso significativo è rappresentato da Vallombrosa, un esempio di selvicoltura monastica, discusso nel sesto capitolo, dove nei primi anni dell’Ottocento i querceti, i castagneti e i faggeti, che per la loro versatilità avevano dominato l’agricoltura tardo-medievale, furono progressivamente sostituiti dagli abeti. Una pratica che si andava diffondendo parallelamente nel resto dell’Europa.
Fu ancora una volta l’interesse commerciale per il bosco a cambiare la fisionomia del paesaggio. In seguito alla costruzione delle linee ferroviarie europee, che mutarono la geografia dei tagli, sul mercato si imposero le riserve provenienti dall’Impero austro-ungarico, che provocarono un crollo dei prezzi della produzione italiana. Nel corso del XIX secolo si diede quindi avvio alla sostituzione del ceduo con l’abete per il maggior valore commerciale del legname da costruzione.
Negli ultimi capitoli l’autore si sofferma sul tema del rimboschimento e delle opere idraulico forestali (7), sulla civiltà del castagno (8), sull’economia del carbone e le trasformazioni sul paesaggio da essa derivata (9) per arrivare infine a tracciare un profilo dei profondi cambiamenti che hanno segnato il paesaggio forestale italiano nell'ultimo secolo (10). In seguito all’incremento demografico avvenuto tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo con la popolazione montana passata da circa 5.000.000 a 8.500.000 unità nel 1951 che provocò un “assalto alla montagna” (p. 290) si giunse infatti alla messa a coltura di aree acclivi e alla bonifica di quelle paludose. Il fenomeno coinvolse il paese in modo difforme ed ebbe rilevanti conseguenze sul patrimonio boschivo.
Nel secondo dopoguerra questa pressione iniziò a ridursi con la diffusione di nuove fonti energetiche, che sostituirono progressivamente i combustibili vegetali. Anche il cambiamento della società italiana da agricola a industriale incise profondamente sul bosco, che ha cominciato a riguadagnare lo spazio ceduto all’uomo, occupando anche le superfici agricole lasciate incolte. Questo abbandono e l’aumento delle aree urbanizzate hanno sancito una trasformazione “epocale” del paesaggio avvenuta solamente in un secolo. Oggi assistiamo pertanto a un notevole processo di riforestazione, accompagnato da una percezione del bosco avulsa dal contesto storico, nella quale esso viene inteso quale elemento naturale e non come prodotto dell’opera dell’uomo. Ci troviamo di fronte a una polarizzazione del paesaggio con grandi aree in pianura, circondate da aree di agricoltura più specializzata, mentre nella media collina e in montagna prevalgono zone boscate piuttosto omogenee.
Oggi, scrive Mauro Agnoletti, osserviamo una degradazione del paesaggio causata dai cambiamenti socio-economici e dalla perdita della memoria storica (p. 304). Il volume si chiude quindi con l’appello a guardare con maggiore lucidità al territorio quale risultato dell’integrazione di fattori antropici e naturali e a considerare il bosco nella sua essenza di paesaggio costruito dall’uomo: un elemento fondamentale nella quotidianità di gran parte della popolazione solo fino a cinquant’anni fa, ma non ancora pienamente riconosciuto come uno dei valori fondativi del patrimonio storico-culturale italiano.
[1] E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961; A. Caracciolo - R. Morelli, La cattura dell’energia, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996; P. Malanima, Energia e crescita nell’Europa preindustriale, Roma, Carocci, 1996; G. Alfani - M. di Tullio - L. Mocarelli, Storia economica e ambiente italiano (ca. 1400-1850), Milano, Franco Angeli, 2012.