II, 2019/3

Guido Alfani, Cormac Ó Gráda (eds.)

Famine in European History

Review by: Manuel Vaquero Piñeiro

Editors: Guido Alfani, Cormac Ó Gráda
Title: Famine in European History
Place: Cambridge
Publisher: Cambridge University Press
Year: 2017
ISBN: 9781107179936
URL: link to the title

Reviewer Manuel Vaquero Piñeiro - Università degli Studi di Perugia

Citation
M. Vaquero Piñeiro, review of Guido Alfani, Cormac Ó Gráda (eds.), Famine in European History, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, in: ARO, II, 2019, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2019/3/famine-in-european-history-manuel-vaquero-pineiro/

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Nel 2014 il Comune di Milano e la fondazione bancaria Cariplo hanno ideato il Milan Urban Food Policy Pact (MUFPP), una politica urbana innovativa volta ad aumentare la sostenibilità del sistema alimentare milanese. Nel 2015, in occasione dell’Expo, è stata sottoscritta la “Carta di Milano” mentre contestualmente nella Città del Vaticano veniva data alle stampe l’enciclica di papa Francesco Laudato si'. Siamo in presenza di iniziative e documenti i quali, pur su piani differenti, appaiono accomunati dalla volontà di affrontare le numerose criticità che, in tutto il mondo, riguardano la produzione e la distribuzione di cibo, tenendo presente in particolare le conseguenze della crescita della popolazione mondiale e le problematiche di quelle aree del pianeta in cui la fame e il dilagare di malattie legate alle carenze alimentari continua a essere una drammatica e quotidiana realtà. L’accresciuta consapevolezza di tali questioni si è andata sviluppando in parallelo a un fenomeno tutt’affatto differente riguardante i soli Paesi sviluppati, nei quali il food (nelle sue varie forme e declinazioni) è diventato uno degli assi principali dei programmi di intrattenimento televisivo e il settore dell’enogastronomia di qualità ha prodotto pubblicazioni ed eventi di grande impatto mediatico.

Rispetto a una società che vive il cibo in termini di esperienze e di tempo libero, dovrebbe costituire motivo di riflessione il fatto che la Carta di Milano esordisca sostenendo che “il diritto al cibo si trasforma in dovere per chi quel cibo lo produce”. A  tale principio corrisponde l’obiettivo di garantire a tutte le persone il diritto a un cibo sufficiente, sicuro, sano e nutriente. Parole simili si ritrovano anche nel documento papale, in quanto il cibo, interconnesso con l’ambiente, l’agricoltura e i nuovi modelli di sviluppo, appare oggi, alle soglie del XXI secolo, una delle chiavi di lettura più indicative delle tendenze che contraddistinguono la società occidentale post-industriale. Parlare di cibo, anche adottando talvolta il linguaggio dell’edonismo e del lusso da mostrare con ostentazione, va di moda non tanto perché i generi alimentari siano beni  scarsi o a rischio ma perché in determinati contesti socio-economici sono diventati un vero e proprio fenomeno sociale e mediatico.

Se lasciamo da parte le immagini televisive piene di succulente pietanze e guardiamo i dati statistici forniti dalla FAO, è possibile cogliere in quale misura la fame nel mondo sia ben lontana dall' essere un triste e doloroso ricordo del passato. Negli ultimi venticinque anni del XX secolo, il numero di persone affamate è sceso da 959 milioni a 791 milioni, innanzitutto grazie ai progressi nella riduzione della malnutrizione in India e in Cina. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Novanta, il numero degli affamati cronici nei Paesi in via di sviluppo (meno di 2.100 calorie al giorno) ha ripreso quota al ritmo di quasi 4 milioni di persone all' anno. Tra il 2001 e il 2003 il numero di persone malnutrite nel mondo è arrivato a 854 milioni. Gli ultimi riscontri indicano che, per la prima volta dopo 15 anni, il numero di persone che soffre la fame nel mondo è diminuito, scendendo da 1,02 miliardi nel 2009 a 842 milioni nel triennio 2011-2013, fino agli 805 milioni del 2013-2014. In ogni caso, circa una persona su otto non dispone di cibo sufficiente a condurre una vita sana e attiva. La fame e la malnutrizione sono quindi il rischio maggiore per la salute mondiale, superiore a malattie quali l’AIDS, la malaria e la tubercolosi messe insieme. Queste cifre non vanno lette soltanto dal punto di vista della carenza (assoluta o relativa) di calorie ma anche come testimonianza diretta di scenari in cui la crisi alimentare e la povertà si confondono con il deterioramento ecologico, le guerre, il terrorismo internazionale e l’assenza di diritti. Il fenomeno della fame, nelle sue molteplici manifestazioni, rappresenta infatti un fondamentale snodo degli equilibri sottesi ai rapporti tra popolazione e risorse a disposizione. Un’interazione che, secondo Thomas R. Malthus e Adam Smith, doveva essere declinata in maniera essenzialmente quantitativa, mentre, a parere di studiosi come Amartya Sen e di Angus Deaton, questi dati vanno interpretate sulla scorta di molteplici variabili, che comprendono il ruolo delle istituzioni e l’efficacia della cooperazione internazionale. Si è così accumulato, nel corso degli ultimi duecento anni, un ricco e variegato patrimonio di posizioni circa i fattori e i percorsi che hanno permesso a una parte rilevante della popolazione mondiale di compiere la “grande fuga”, o salto in avanti, un obiettivo che per un’altra parte continua a essere difficilmente realizzabile. Gli aspetti da considerare sono dunque numerosi e si intrecciano in maniera dialettica tra loro, determinando le trasformazioni alla base delle attuali gerarchie politico-economiche globali.

Il libro a cura di Guido Alfani e Cormac Ó Gráda va inserito in un ampio e sfaccettato contesto di contributi scientifici che si propongono di approfondire la conoscenza delle traiettorie percorse da quelle società, in questo caso europee, che sono riuscite a combattere con successo gli effetti della fame. Il volume vede la partecipazione di un nutrito gruppo di studiosi, i quali, adottando un criterio geografico, presentano un ricchissimo ventaglio di dati e considerazioni riguardanti le differenti aree prese in esame. Il fenomeno della fame e delle carestie è affrontato in riferimento a pressoché tutti i paesi europei scegliendo una cronologia di lunghissima durata. Si va da antiche tracce documentarie, che collocano verso il 536 nei Paesi scandinavi fenomeni di “carestie estreme”, fino agli anni del secondo conflitto mondiale, allorché la mancanza di alimenti caratterizzò buona parte delle regioni europee. In questo modo si fissano i limiti cronologici di circa millecinquecento anni di storia d’Europa, nel corso dei quali l’esistenza delle persone fu segnata, per non dire condizionata, dalla regolarità con cui si riproponeva il problema della scarsità di cibo. Al di là delle differenze che esistettero tra le varie aree, il volume intende analizzare le modalità con le quali un intero continente, diviso politicamente, affrontò un comune flagello che era quello della fame e delle ripetute contrazioni di offerta alimentare. La fame non conobbe né limiti cronologici né barriere politiche, rappresentando una delle componenti che hanno partecipato (in negativo) alla costruzione di una storia comune europea. Dall’Irlanda alla Russia e dal Baltico al Mediterraneo, per secoli, il continente europeo fu condizionato da meccanismi economici e distributivi che rendevano problematico l’accesso al cibo. Nel volume mancano specifiche indagini su una corposa fascia di continente europeo, quella compresa tra la Polonia, l’area Danubiana e i Balcani e che si estende fino a fondersi con il territorio dell’Impero turco; tuttavia, altri studi di recente pubblicazione hanno dimostrato che, già dal XIII secolo, anche i territori del Regno d’Ungheria subirono le conseguenze della guerra e della peste. Perciò si compone un unico scenario continentale da considerare in tutta la sua ampiezza.

Considerata la complessità della situazione, definitasi nel tempo, i numerosi riscontri statistici presenti nel volume attestano che il flagello della fame cominciò a diradarsi soltanto a partire dal XVIII-XIX secolo: in Gran Bretagna l’ultima grande fame fu quella del 1660, mentre nel continente bisognerà attendere la fine delle Guerre napoleoniche, sebbene anche in seguito si siano verificati episodi di carattere eccezionale, come la crisi irlandese degli anni Quaranta dell’Ottocento. Di questa tendenza generale non fa parte la Russia, che continuò a conoscere carestie del tipo di quelle di antico regime fino ai primi anni del XX secolo. In questo caso, dinamiche economiche tradizionali si vanno a intrecciare fino a fondersi con gli stravolgimenti successivi alla nascita dell’Unione Sovietica. L’analisi che il volume riserva della realtà russa appare stimolante, perché consente di rileggere alla luce delle più aggiornate sensibilità storiografiche l’interpretazione fornita dall’ortodossia marxista, secondo la quale le carestie erano fenomeni di antico regime, riconducibili alle logiche dello sfruttamento e dell’iniqua distribuzione della ricchezza. Tuttavia, come insegnano i casi della Cina di Mao e del Venezuela di Chávez, l’abbattimento delle strutture produttive tradizionali non ha implicato la scomparsa del fenomeno, il quale, dunque, va affrontato tenendo presenti anche le articolazioni politico-istituzionali proprie di ogni Paese.

Tornando allo scenario generale affrontato dal volume, la fame abbandonò gli europei soltanto con l’arrivo dell’industrializzazione. Fino a quel momento vi fu un’ininterrotta successione di carestie iniziata in epoca alto-medievale. A partire dal XII secolo la documentazione diventa via via più ricca e pertanto aumentano le testimonianze relative a carestie e penuria alimentare. In particolare, il panorama subì una radicale modifica dopo la grande fame del 1315-1316, in relazione alla quale i riscontri sono numerosi proprio per quelle aree del continente che furono caratterizzate dallo sviluppo delle istituzioni comunali. In questo modo, già dal pieno Medioevo, si riscontra lo stretto legame tra carestie e città, un connubio che proseguì nei secoli successivi man mano che vennero perfezionate le politiche di intervento sul territorio in chiave di approvvigionamento.

Nei casi di Italia, Francia e Spagna, le informazioni consentono di elaborare delle serie continuative che prendono le mosse dal XIII secolo; esse dimostrano che le carestie si ripeterono con regolarità, ogni quattro o cinque anni, una media che spesso si riduceva a nemmeno due-tre anni. Per spiegare le crisi alimentari occorre considerare, oltre all’andamento della popolazione (come nella teoria malthusiana) anche l’andamento dei cicli agrari e gli eventi naturali che potevano aumentare la precarietà di ogni anno agrario. Si compone così una mappa del continente europeo che mette ben in evidenza la complessità dell’argomento, soprattutto quando si cerca di tracciare una linea di continuità tra il Medioevo e l’Età moderna che sia in grado di includere tanto le piccole carestie quanto le grandi “carestie assolute” e le loro modalità di propagazione. Uno scenario complesso, che comprende le carestie medievali derivanti dal cattivo funzionamento dei circuiti commerciali cittadini e quelle di epoca moderna, correlate alle monarchie nazionali e ai grandi spazi commerciali imposti dal colonialismo.

Le carestie rappresentarono un fenomeno trasversale  “pan-national”  (p. 164), all’intera Europa. Parimenti, fu trasversale la risposta messa a punto dalle differenti istituzioni chiamate a confrontarsi con il fenomeno. Se intervenire sulle cause agrarie delle carestie risultò essere un’impresa costellata di difficoltà, in età medievale e moderna si assiste alla nascita di organismi cittadini o statali rivolti al controllo degli approvvigionamenti. Nel lungo periodo, si definirono le coordinate di una geografia politico-istituzionale convergente nel comune intento di affrontare gli effetti della mancanza di grano (per far riferimento al bene simbolo). Gli interventi annonari, quasi obbligata per le autorità e i gruppi dirigenti, contribuirono in maniera decisiva a ridurre le divergenze tra gli attori politici, chiamati a confrontarsi con le conseguenze socio-economiche delle diffuse paure di fronte a mercati improvvisamente sprovvisti di generi alimentari. Come si evince dai saggi, le soluzioni messe in campo furono varie, pur con il comune obiettivo di venire incontro alle esigenze della popolazione dei grandi centri urbani, nei quali i periodi di carestia si facevano sentire con maggiore intensità. A dimostrazione dell’attualità delle tematiche affrontate nel volume, ancora oggi rimane vitale il legame esistente tra cibo e città, come attesta la pluralità di progetti che ruotano intorno ai distretti metropolitani del cibo o agli ecosistemi urbani pianificati per favorire servizi alimentari sostenibili. Non a caso, sono le città che, con le loro scelte, determinano in larga misura i modelli di agricoltura che vengono praticati.

Un’altra linea di continuità può essere stabilita collegando i tentativi compiuti dalle città nell’Europa medievale nel delineare specifiche politiche annonarie. A Londra nel 1439, ormai alla fine della logorante Guerra dei Cento Anni, fu costruito il primo grande granaio pubblico della città (p. 154), e la realizzazione di strutture analoghe finalizzate all’immagazzinamento fu senza dubbio una delle soluzioni più frequentemente adottate dalle autorità per tenere sotto controllo il prezzo delle granaglie. In altri casi, si cercò di creare un’efficiente rete commerciale, in grado di garantire in qualsiasi momento il regolare rifornimento dei mercati cittadini. Da questo punto di vista, che sposta l’attenzione sul funzionamento della rete dei traffici, le città dei Paesi Bassi appaiono esemplari, sia per i mezzi dispiegati sia per i risultati raggiunti. Nel contesto delle risposte istituzionali al problema dei rifornimenti cittadini va collocata la scelta zarista di trasferire la capitale russa da Mosca a San Pietroburgo, enclave al riparo dalle incursioni dei tartari e dei mongoli, ma soprattutto aperta ai traffici commerciali del mar Baltico. In seguito, durante l’Età moderna, per le monarchie nazionali diventò prioritario assicurare l’approvvigionamento delle rispettive capitali. Anche seguendo questo particolare aspetto si può parlare di percorsi europei tendenti alla convergenza, che si riscontra anche nel settore delle innovazioni agronomiche. La diffusione del mais e delle patate non soltanto creò le condizioni per una più sostenuta crescita demografica ma contribuì alla formazione dell’agricoltura europea. 

Rimane aperta la questione, per niente facile da definire, di stabilire una precisa soglia tra “fame”, “mancanza di cibo”, e “carestia assoluta”. Sono termini assai problematici da definire, che fanno riferimento ai prezzi, alla popolazione, alla mortalità, al mercato della terra, alle temperature e alle età degli individui al momento del matrimonio; si tratta di altrettante variabili che sono state prese in esame dagli studiosi (Ernest Labrousse, Wilhelm Abel, e così via) che hanno indagato le carestie per analizzare le trasformazioni vissute dalla società europea. Ma, come si è detto all’inizio, i problemi non appaiono essersi risolti del tutto. Se è vero che l’Europa, nel corso dei secoli affrontati nel libro, è riuscita, con velocità diverse, a sconfiggere il flagello delle carestie catastrofiche, il problema della povertà alimentare colpisce tuttora quasi il 10,3% della popolazione europea. Oggi, per fortuna, la questione non è la carenza di cibo, bensì l’accesso a pasti proteici adeguati e regolari. Se con  l’avvento della società contemporanea le antiche paure di rimanere senza alimenti sono state sostituite da allettanti negozi di gastronomia, negli anni più recenti la ricerca della quantità sta lasciando il posto a consumi responsabili e sostenibili con l’ambiente.  È tuttavia risaputo che tali aspirazioni riguardino soltanto un settore della popolazione mondiale. In altri casi, ci troviamo ancora di fronte alle classiche carestie che i Paesi sviluppati sono riusciti a sconfiggere nel corso degli ultimi due secoli. Rimane da verificare se i percorsi di sviluppo compiuti dall’Europa rispetto alle carestie e alle scarsità alimentari possano costituire dei modelli per le aree arretrate del pianeta.                    

 

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