Reviewer Duccio Basosi - Università Ca' Foscari Venezia
CitationOdd Arne Westad è uno dei pochi storici viventi ai quali è possibile attribuire senza troppe discussioni il titolo di “maestro”, sia per la sua capacità di aprire un intero nuovo filone storiografico con la pubblicazione di The Global Cold War (2005), sia perché l’enfasi sulla ricerca multiarchivistica e in più lingue, sempre presente nelle sue opere, è divenuta oggi moneta corrente nella scrittura di lavori di storia internazionale. Il volume The Cold War. A World History tuttavia non pare essere un risultato all’altezza del riconosciuto valore del suo autore.
Presi singolarmente, i ventidue capitoli che lo compongono costituiscono in generale agili rappresentazioni di vari aspetti della politica internazionale novecentesca: anzitutto delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Unione Sovietica (trattate soprattutto nei capitoli 2, 3, 4, 14, 18 e 20, in una chiave interpretativa fortemente debitrice dell’ultimo John Gaddis) e poi di varie vicende politiche regionali della seconda metà del secolo (Europa, Asia Orientale, America Latina, subcontinente indiano, Asia centrale, Medio oriente), osservate attraverso la lente dei rispettivi rapporti con il sistema internazionale imperniato sul bipolarismo tra le due superpotenze. Dotati di poche note bibliografiche e virtualmente privi di discussioni critiche della letteratura, sul piano analitico questi capitoli non aggiungono molto a quanto gli studenti di storia internazionale già conoscono da un qualunque manuale stampato negli ultimi venti anni (o dalla lettura dei precedenti e ben più densi lavori dell’autore), ma possono essere utili per trovare qualche citazione 'ghiotta' dagli scritti e dai discorsi delle principali personalità politiche del secolo (da Lenin a Roosevelt, da Nehru a Deng), citati a profusione per aumentare la vividezza del racconto in un’opera votata evidentemente più al mercato editoriale che all’approfondimento del dibattito storiografico.
Più problematica è la lettura del volume come un’opera unitaria, tanto più che esso non presenta un titolo “neutro” (Aspetti della storia internazionale del Novecento sarebbe stato ottimo, sebbene non sia particolarmente 'sexy'), ma un titolo dai fortissimi connotati prescrittivi. In un contesto caratterizzato dalla progressiva evaporazione di ogni significato condiviso dell’espressione "Guerra fredda" (come segnalato, sia pure con conclusioni divergenti, tanto dai saggi filologici di Anders Stephanson quanto dalla recente panoramica di Federico Romero per Cold War History), Westad estende qui la “Guerra fredda” addirittura oltre i suoi già problematici confini tradizionali, presentandola come “un conflitto tra capitalismo e socialismo che raggiunse l’apice tra il 1945 e il 1989” e come un “sistema internazionale, nel senso che tutte le principali potenze mondiali fondarono le loro politiche estere su una qualche relazione con essa” (p. 1). Posta la questione in questi termini, suona ambiguo il senso del disclaimer posto dall’autore in sede di introduzione, secondo il quale “la guerra fredda non decideva tutto” (p. 2). Se, infatti, il conflitto ideologico socialismo/capitalismo cattura buona parte della storia interna e internazionale dell’Europa e delle Americhe nel Novecento (quali che fossero le forme specifiche dell’interazione tra i soggetti organizzati che si rifacevano a tali idee), il sistema internazionale influenza per definizione tutto il resto (quali che fossero le forme specifiche, conflittuali o cooperative, dell’interazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica o, ancora, le forme specifiche dell’“influenza” del sistema sui suoi attori più o meno periferici). Se proprio vi fossero vicende la cui narrazione sfuggisse a una delle due definizioni di cui sopra, una terza definizione fornita nel pieno del volume provvede ad assorbire anche queste ultime, spiegando che “in Asia e in Africa [...] la guerra fredda deve essere intesa come una lotta di lungo periodo tra il colonialismo e i suoi oppositori” (p. 449).
Non è un caso che numerosi recensori abbiano già mosso al volume la critica di aver trascurato questo o quel caso nazionale: il problema tuttavia non è tanto l’assenza di casi specifici dalla trattazione, ma l’impossibilità concettuale di escludere dalla narrazione alcunché, una volta che di “Guerra fredda” sia stata adottata una definizione come quella enunciata (o meglio, tre definizioni non coincidenti, come quelle enunciate). Ma, allora, non solo vale l’osservazione che, se tutto è "Guerra fredda”, allora niente è specificamente “Guerra fredda” (come segnalato per esempio da Bruna Bagnato sulla Rivista Italiana di Storia Internazionale), ma anche l’impressione che ciascuna specifica vicenda nazionale e regionale (dal conflitto arabo-israeliano a quello indo-pakistano, passando per la rivoluzione culturale cinese e per il processo di integrazione europea) sia forzata all’interno di una struttura narrativa in cui la molteplicità dei fattori in gioco viene ricondotta a una logica artificialmente binaria.
La lettura del volume è stimolante e facilitata da quella che un lettore entusiasta ha descritto come una gripping narrative. In passato Westad ci aveva però abituato a lavori in cui la facilità di lettura non andava a discapito della precisione concettuale.