Reviewer Edoardo Tortarolo - Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro"
CitationScrivendo questo libro Pietro Rossi si è assunto un compito immane e delicato: combinare la narrazione storica degli snodi fondamentali della vicenda europea con la riflessione sulla sua parabola complessiva e sulle sue prospettive per il futuro prossimo. Il libro si presenta quindi come un saggio di macrostoria con ambizioni interpretative, per molti versi un esperimento non frequente nella storiografia italiana. Il compito è stato assolto con grande sicurezza, senza arretrare di fronte alla necessità di formulare giudizi netti e scegliendo con energia i punti di vista dai quali guardare a millenni di storia. Il risultato è una biografia dell’Europa ispirata dall’autobiografia dell’autore, che si riconosce come cittadino europeo e non nasconde di guardare “con disprezzo e tristezza ai nazionalismi risorgenti, con le loro chiusure, le loro tendenze autarchiche, la loro insopportabile demagogia” (p. 12). Il titolo è evidentemente di origine spengleriana e Pietro Rossi non solo lo riconosce in apertura del suo libro, ma usa la prospettiva di ascesa e declino come uno strumento per ordinare gli avvenimenti della storia europea. In realtà, molto più che con Spengler e con la sua visione morfologica della storia universale, il libro è un dialogo ricorrente e consenziente con Max Weber, sia nella parte che riguarda l’Europa prima dell’Europa, sia nella trattazione del periodo propriamente europeo che per Pietro Rossi (in accordo con Marc Bloch e Henri Pirenne) iniziò con l’età carolingia. È anche una storia dell’Europa, va detto con chiarezza, largamente, se non esclusivamente, positiva. Secondo l’autore, la crescita dell’Europa ha coinciso in larga misura con la crescita della civiltà umana nel suo senso migliore e ha determinato svolte decisive nella storia dell’umanità intera. L’Impero romano creò le condizioni per cui l’enciclopedia ellenistica e la filosofia “segnarono uno spartiacque decisivo per la futura civiltà europea” (p. 44). L’identità europea si formò nel Medioevo e nell’Età moderna con modalità specifiche e inimitabili: l’urbanesimo a discapito della società rurale, le università come luoghi di discussione, la ripresa della cultura classica e la sua riformulazione in un umanesimo che rappresentò “un potente fattore di unità dell’Occidente europeo” (p. 81), la trasformazione del cristianesimo e la sua frammentazione e poi secolarizzazione, l’acquisizione del senso della propria relatività a confronto con le civiltà ‘altre’ attraverso l’espansione coloniale, la creazione di nuove modalità di produzione della ricchezza disponibile e della superiorità militare. In questo panorama della crescita europea Pietro Rossi inserisce elementi di disgregazione, come se nel momento in cui si stavano poggiando le basi per la supremazia europea sul mondo si potessero scorgere i motivi di differenziazione, indebolimento, incomprensione reciproca tra i suoi membri: innanzitutto la frattura confessionale della Riforma protestante e l’eterogeneità dei sistemi politico-istituzionali e della struttura socio-economica (pp. 163-66). Il paradosso si rivela compiutamente nell’Ottocento. Quella che era stata una componente della diversità interna europea, tenuta a freno però dai fattori unificanti, emerge come la caratteristica dominante (e distruttiva) dell’identità europea: all’indomani della caduta dellIimpero napoleonico “lo stato nazionale era diventato la forma di organizzazione politica comune ai paesi europei“ (p. 187). La guerra civile europea del Novecento fino al 1945 ha rappresentato l’esplosione di questa dimensione nazionalista al grado estremo. Inoltre, a potenziarne ulteriormente gli effetti distruttori, l’esasperato nazionalismo europeo ha coinciso con le prime fasi della decolonizzazione, che, sua volta, può essere interpretata anche come la realizzazione – contro l’Europa - dell’idea di nazione, principio unificatore di popolo, omogeneo linguisticamente e (forse) etnicamente, territorio ed esercizio della sovranità.
La ricostruzione della storia europea offerta da Pietro Rossi ruota quindi intorno all’idea e, almeno per un certo periodo di tempo, alla realtà di una civiltà europea omogenea e ben distinta dal resto del mondo. Ma è fondata al tempo stesso sul riconoscimento dei motivi crescenti di tensione interna, di dissidio e concorrenza reciproca, che neppure la creazione delle varie forme di cooperazione e poi unione europea sono riuscite a superare. Neppure la contrapposizione prima con l’Unione sovietica e il suo modello di società, politica ed economia, poi con l’imperialismo di Putin e con il terrorismo islamico è riuscita a compattare l’Europa in una unità di ordine superiore a quella economica e monetaria, governata di fatto dalla superiore capacità produttiva e organizzativa della Germania, che dal 1945 in poi guarda “allo sviluppo economico come alla possibilità di riscatto dal proprio passato” (p. 250) e che non solo, a differenza dei Paesi mediterranei, considera “l’osservanza di regole liberamente stipulate [...] cosa ovvia” ma vive dell’”eredità dello ‘spirito capitalistico’ di matrice protestante, quale l’aveva raffigurato Max Weber” (p. 251). Nel mondo pluralistico e globalizzato post-1989 i tentativi di creare un’unità europea più solida e coesa sono - almeno per il momento – naufragati per l'assenza di una guida convincente e per la contemporanea mancanza di supporto nell’opinione pubblica nei confronti di un progetto di amalgamazione profonda tra le culture europee. È difficile non concordare con Pietro Rossi che “a un quarto di secolo dal crollo del comunismo l’Europa si ritrova divisa, e al tempo stesso politicamente più isolata” (p. 271): una combinazione di condizioni evidentemente di enorme gravità per il sistema mondiale, rispetto alla quale le nuove élite sovraniste (ma forse sarebbe meglio definirle etno-nazionaliste) non hanno risposte se non quelle nutrite dall’ossessione di difendersi dai movimenti di popolazione sulla scala ridottissima del territorio nazionale. E tuttavia malgrado si utilizzi spesso la nozione di supremazia europea, nella storia-riflessione di Pietro Rossi ci sono tutti gli elementi fondativi per argomentare che un “secolo europeo” è stato anche nel passato un’approssimazione piuttosto lontana dalla realtà, data l’eterogeneità interna del continente nell’arco della sua esistenza come civiltà, e date le enormi trasformazioni che il contatto con il non-europeo ha provocato. L’idea stessa che ci possa essere in futuro un secolo americano, o cinese, o sino-indiano, o nippo-cinese, pare incompatibile con la storia presentata da Pietro Rossi (pp. 271-272). La storiografia novecentesca può venirci in aiuto solo parzialmente per capire gli sviluppi attuali, se non per contrasto. Più difficile che mai da pensare nelle sue radici e da raccontare nel suo svolgimento, quello che costituisce il luogo della nostra esperienza è un secolo di fluide contrapposizioni tra macro-attori politico-militari, cultural-religiosi ed economici, ai quali l’idea di collaborazione pragmatica e concertazione risulta sempre più estranea perché la loro stessa identità è sfuggente e indefinibile.