Reviewer Giovanni Bernardini - FBK-ISIG e European University Institute
CitationIl volume di Andrea Di Michele fa leva su una notevole ricchezza di fonti per ricostruire la vicenda dei soldati di lingua italiana che servirono sotto le insegne dell’Impero Austroungarico durante la Prima Guerra Mondiale. Sebbene il capitolo iniziale possa apparire eccessivamente didascalico, esso sarà certamente apprezzato da chi non ha grande dimestichezza con l’evoluzione politica e istituzionale di uno dei principali imperi multietnici europei, in particolare in merito alla crescente rilevanza della questione nazionale dalla metà dell’Ottocento fino alle soglie della Grande Guerra. La puntuale ricostruzione di Di Michele è funzionale al corretto inquadramento di questioni rilevanti e spesso interpretate in modo fuorviante, intenzionalmente o meno, da gran parte della storiografia, come la consistenza numerica della minoranza italofona, il suo status giuridico e le sue condizioni di fatto rispetto agli altri gruppi etnico-linguistici, il suo grado di identificazione con le istituzioni imperiali o viceversa con l’irredentismo filoitaliano. Nel capitolo successivo, Di Michele affronta quello che egli stesso identifica come il nodo cruciale della vicenda: nell’ambito della crescente sfiducia delle autorità politiche e militari austriache e ungheresi nei confronti delle altre nazionalità dell’Impero, il pregiudizio anti-italiano si concretizzò nella decisione di inviare i trentini e i friulani-giuliani a combattere sul fronte orientale, ben lontano dalla frontiera con l’Italia in ragione della loro presunta inaffidabilità. Si trattò soltanto del primo atto di una discriminazione destinata a crescere esponenzialmente con l’entrata in guerra del Regno d’Italia. Da quel momento e salvo rare eccezioni, i soldati di lingua italiana furono vittime di accuse gratuite di tradimento e subirono ogni genere di vessazioni. Queste, ipotizza Di Michele, finirono paradossalmente per spingere molti di loro verso una disaffezione alla causa imperiale, preludio per alcuni di una progressiva identificazione con quella italiana e irredentista. Grazie a un lavoro capillare di consultazione dei diari, delle memorie e delle corrispondenze, Di Michele ricostruisce il calvario vissuto dai molti che furono fatti prigionieri sin dalle prime battaglie sul fronte orientale, e che spesso non riuscirono a giovarsi nemmeno della solidarietà degli altri commilitoni a causa del pregiudizio nei loro confronti. Il terzo capitolo è interamente dedicato a questa epopea negativa, con episodi oggi sorprendenti quali gli scontri e talvolta fisici nell’arcipelago dei campi di prigionia tra “irredentisti” e “austriacanti”, talvolta per conquistare alla rispettiva causa i tanti non schierati. Ancora più lacerante era il dilemma che si poneva loro dal 1915: dichiararsi proitaliani ai censimenti russi e alle commissioni di indagine inviate da Roma avrebbe significato ottenere un trattamento di favore rispetto alle durissime condizioni della prigionia, e in prospettiva la liberazione; questo però a rischio di incorrere nella condanna per alto tradimento da parte delle autorità di Vienna e soprattutto nella perdita di qualunque sostegno e protezione per le famiglie rimaste a casa. Non stupisce che la memorialistica e la corrispondenza rivelino come molti, in fin dei conti, abbiano atteso che fossero più chiare le sorti del conflitto prima di risolversi a prendere una decisione.
A sorprendere semmai è la freddezza burocratica, talvolta tendente al cinismo, con cui le autorità di Roma gestirono la questione. Nonostante un crescente movimento d’opinione in favore dei “fratelli irredentisti” detenuti in Russia, i governi e gli alti gradi dell’esercito sembrarono non avere grande fretta di giungere a una soluzione, sia perché questa avrebbe implicato un importante sforzo diplomatico ed economico, sia per la sfiducia che gli uomini potessero essere poi di nuovo impiegati in guerra dalla loro parte, fino al sospetto che tra i possibili rimpatriati si nascondessero delle vere spie o comunque degli elementi inaffidabili. Quando giunse infine la parziale liberazione dei prigionieri, le autorità italiane cercarono di sfruttarne l’immagine, persino costringendone alcuni a un’estenuante tournée negli Stati Uniti prima di riguadagnare il territorio nazionale, al fine di ribadire di fronte agli alleati la legittimità delle pretese di Roma sulle terre irredente. A queste esperienze di ritorno attraverso i percorsi più improbabili, compresa per alcuni una breve e sfortunata partecipazione alla missione militare alleata in appoggio agli antibolscevichi, è dedicato il quarto e ultimo capitolo del volume.
Non c’è dubbio che il libro di Di Michele sia destinato ad affermarsi come opera di riferimento sul tema, sia per la varietà delle fonti, sia per la capacità di inquadramento storico della vicenda, sia soprattutto per la libertà che l’autore si prende rispetto alle interpretazioni del passato, spesso viziate da una malcelata volontà politica di affermare che gli “italiani d’Austria” fossero tutti ferventi irredentisti o, al contrario, irriducibili fedeli della corona asburgica mutati in sudditi di Roma soltanto “a schioppettate”. Molto più spesso, come l’autore sottolinea, si trattava di elementi dallo scarso grado di politicizzazione, la cui unica fedeltà andava piuttosto alla “piccola patria” del villaggio, della valle e del circolo familiare. In questo senso, la storia narrata da Di Michele è parte integrante di quella “semplificazione di realtà complesse” imposta dallo scoppio del conflitto e dall’esacerbarsi della questione nazionale, e più in generale dall’improvviso smarrimento di vecchie lealtà e dalla lenta ricostruzione delle nuove che la Grande Guerra impose a una gran parte del continente.