Reviewer Gian Paolo Romagnani - Università di Verona
CitationPubblicata pochi mesi prima della scomparsa del grande storico napoletano, questa Storia della storiografia italiana. Un profilo (Laterza, 2017) rappresenta l’ultima fatica di Giuseppe Galasso, da sempre attento alla storia della storiografia e negli ultimi anni sempre più dedito alla riflessione metodologica e alla raccolta e rielaborazione dei suoi scritti sparsi dedicati a storici italiani ed europei del Novecento, ma anche a un ripensamento complessivo dell’esperienza storiografica italiana. Il volume – che riproduce nella prima parte l’articolo Italia e storiografia, pubblicato nel 2012 nell’Appendice VIII dell’Enciclopedia Italiana Treccani, mentre nella seconda parte contiene un inedito profilo della storiografia italiana della seconda metà del Novecento – si affianca ai precedenti volumi Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia (Bologna, 2000), Storici italiani del Novecento (Bologna, 2008), Storiografia e storici europei del Novecento (Roma, 2016) proponendosi come bilancio critico della storiografia italiana nel panorama europeo, anche se l’impostazione in chiave “nazionale” imposta dall’Enciclopedia costituisce a tratti una gabbia un po’ stretta per una trattazione che difficilmente può prescindere dal quadro europeo, se non mondiale. Del resto, muovendo dalla storiografia tardoantica e medievale, lo stesso Galasso nota come sia “davvero difficile parlare di una storiografia italiana per epoche anteriori all’effettivo delinearsi di una italianità” (pp. 7-8), preferendo piuttosto parlare – per i secoli più remoti – di “storiografia in Italia” (p. 8). La definizione stessa di “italianità” potrebbe essere oggetto di più di una critica, ma l’autore – consapevole dei rischi impliciti in tale definizione – assume la dimensione nazionale come prospettiva d’osservazione, tenendo fermo lo sguardo sui molteplici e differenziati spazi interni alla penisola, alla ricerca del formarsi di un “senso storico” proprio degli scrittori di storia attivi in quei territori. Galasso osserva come l’Italia si sia sempre dimostrata un laboratorio di innovazioni e riflessioni di grande spessore nel contesto europeo, con alcune punte di eccellenza: l’umanesimo, con Machiavelli e Guicciardini e con decine di storici italiani chiamati al servizio delle monarchie europee; il primo Settecento, con Vico, Muratori e Giannone che rinnovano la storiografia aprendo una nuova e feconda stagione di studi; i primi decenni del Novecento, con Croce, Gentile, Salvemini e Volpe, pur divisi dalle opzioni metodologiche e dall’appartenenza politica; il secondo dopoguerra dominato da Federico Chabod e poi da Cantimori e Venturi, capace di ricomporre una comunità scientifica profondamente divisa e lacerata dalle esperienze della dittatura, della guerra, della Resistenza, indicando alcune strade che solo in parte sarebbero state seguite dalle generazioni successive, più propense a confrontarsi con i nuovi modelli transalpini e con le scienze sociali.
Rispetto alla prima parte del libro, ricca di spunti, ma inevitabilmente più compilativa e più ancorata ad alcuni illustri modelli, la seconda parte appare più originale e non priva di illuminazioni. Sulla scorta della crociana Storia della storiografia italiana del secolo decimonono – che l’autore segue, pur distaccandosene in alcuni punti – si recuperano gli elementi positivi della stagione storiografica ottocentesca, con qualche concessione alle un po’ desuete etichette di “neoguelfi” e “neoghibellini” e con una forte rivalutazione di studiosi come Cuoco, Cattaneo e De Sanctis. Un giusto rilievo è dato alla stagione in cui in Italia nascono le prime riviste di storia: dall’ “Archivio Storico Italiano” (1841), alla “Rivista Storica Italiana” (1884), agli “Studi Storici” pisani (1892) e in cui in ogni regione vengono fondate le Deputazioni di storia patria, mentre compaiono biblioteche storiche, dizionari e raccolte di fonti di storia locale. Coronamento di questa stagione è, nel 1883, la fondazione dell’Istituto storico italiano. Negli stessi anni in alcune università italiane vengono istituite le prime cattedre di storia. È solo dalla seconda metà del secolo XIX, però, che lo storico comincia a essere identificato con il professore universitario di storia e non più con l’erudito o con l’appassionato. La nascita di una storiografia scientifica influenzata dal positivismo rappresenta anche per l’Italia il fondamento di una nuova storiografia, metodologicamente più avvertita, anche se priva di quel vigore interpretativo che per la generazione precedente era derivato dalla passione politica risorgimentale, pur intrisa di moralismo e ideologismi. Espressione più matura della stagione a cavallo fra Otto e Novecento è la cosiddetta “storiografia economico-giuridica” i cui maggiori esponenti sono Volpe e Salvemini. Dopo essersi soffermato sul trauma rappresentato dalla Prima guerra mondiale per gli storici europei, Galasso affronta gli anni del fascismo, riconoscendo ad esso indubbi meriti sul piano istituzionale e dell’organizzazione degli studi, ma non tacendo i gravi demeriti di una ricerca pesantemente condizionata dall’ideologia. L’influenza crociana, significativa ma minoritaria fra le due guerre, diventa egemonica solo negli anni dell’immediato dopoguerra, ponendo le premesse della nuova storiografia repubblicana.
Nella seconda parte del volume, intitolata Dalla tradizione alla ricerca di altre dimensioni, Galasso mette in evidenza precisamente il forte legame della storiografia italiana del dopoguerra con la tradizione, e in particolare con i due numi tutelari Croce e Volpe, mostrando una netta preferenza per il primo, sebbene il ruolo del secondo nel formare e orientare i più importanti storici italiani del Novecento sia stato notevolissimo. Il terzo nume tutelare della storiografia postbellica è sicuramente Gramsci i cui Quaderni postumi hanno influenzato non solo gli studiosi della sinistra marxista, ma anche quelli di matrice liberale e moderata, che nelle loro espressioni più creative (R. Romeo) non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con il suo pensiero. Sullo sfondo di una storiografia mondiale egemonizzata dalla Francia e non più dalla Germania – in misura minore dalla Gran Bretagna e solo tardivamente dagli Stati Uniti – la storiografia italiana mantiene – almeno fino agli anni Settanta – un ruolo di primo piano, sebbene la sua circolazione internazionale resti limitata. Una maggior difficoltà a dialogare con le altre storiografie deriva anche dalla sua accentuata politicizzazione e da una prevalenza di ricerche rivolte alla storia italiana moderna e contemporanea, nel tentativo di rispondere al drammatico interrogativo “perché il fascismo?”. Ciò spiega non solo il forzato oblio del magistero volpiano e il rifiuto di ogni nazionalismo storiografico, ma anche l’avvio di una sorta di “processo al Risorgimento” che avrebbe utilizzato sia Gobetti sia Gramsci per rileggere in una chiave critica il processo di unificazione italiana e che, per altro verso, individuava nei vizi tradizionalmente caratteristici dell’“homo italicus” le origini del fascismo.
Quattro sono le matrici storiografiche che Galasso individua nei primi due decenni del dopoguerra: 1) quella crociana, inizialmente incarnata da Chabod e Omodeo e presto riunita attorno all’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli – luogo privilegiato di formazione post-universitaria per più di una generazione di storici italiani – ma variamente declinata dai numerosi storici legati all’effimera ma esaltante avventura del Partito d’Azione, di cui la “Rivista Storica Italiana” (diretta prima da Chabod e poi da Venturi) sarà l’espressione migliore; 2) quella gramsciana, capace di proporre un marxismo storicistico, assai meno schematico di quello sovietico, sempre attento alla dimensione intellettuale e politica (e quindi indirettamente influenzato da Croce e Gentile), ma soprattutto teso a interrogarsi sui problemi della formazione dell’Italia moderna e contemporanea, del suo sviluppo economico e dei suoi gruppi dirigenti, incarnata dagli storici riuniti dal 1954 attorno all’Istituto Gramsci e dal 1959 alla rivista “Studi Storici”; 3) quella cattolica, minoritaria rispetto alle prime due, ma più sensibile ad alcuni temi di storia sociale, al ruolo delle masse popolari e dei contadini nella storia d’Italia, alla dimensione spirituale e religiosa; 4) il cosiddetto “quarto settore”, anch’esso minoritario, ossia gli storici influenzati dall’approccio neo-positivista e pragmatico, molto attenti alle novità provenienti dalle scienze sociali anglosassoni.
Galasso concorda parzialmente sull’utilità di un approccio generazionale alla storia della storiografia italiana del Novecento, ritenendolo tuttavia insufficiente a coglierne la ricchezza e le sfumature. Più affine alla sua impostazione è una trattazione della materia secondo le più tradizionali partizioni cronologico-disciplinari, a partire dall’antichistica, dominata dai contrastanti approcci di Mazzarino e Momigliano; per proseguire con la medievistica, che muove dal duplice magistero di Volpe e Salvemini sviluppandosi poi lungo filoni diversi grazie all’opera di maestri quali Falco, Violante, Morghen e dopo di loro Tabacco, Capitani, Arnaldi, Manselli, sempre più suggestionati dalla coeva medievistica europea. Più complesse le vicende della modernistica, a partire dalla torsione subita da una disciplina inizialmente strettamente connessa, anche nella denominazione delle cattedre universitarie, con la medievistica (lasciando alla storia del Risorgimento il monopolio della “contemporaneità”) e poi progressivamente spostatasi fino ad abbracciare la contemporaneistica, a sua volta trasformatasi in disciplina autonoma tra il 1960 e il 1970, sotto l’influsso di una storiografia militante fortemente caratterizzata a sinistra e già dotatasi delle sue istituzioni di ricerca. Inevitabile, anche per Galasso, soffermarsi sulla personalità dei tre maggiori modernisti italiani del Novecento: Chabod, Cantimori e Venturi. Diversi l’uno dall’altro, ma accomunati da una produzione fortemente caratterizzata in senso etico-politico e capaci di dissodare terreni prima inesplorati. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta una sempre maggiore attenzione viene dedicata alla storia politica, istituzionale e sociale degli antichi stati italiani, sottratti al cliché risorgimentale delle “dominazioni straniere”. Ugualmente il Seicento viene sottratto all’ipoteca di “secolo della decadenza” e del malgoverno per essere collocato meglio in una prospettiva europea dove anche il ruolo della Spagna imperiale appare in una luce meno fosca. Rigogliosa è infine la messe di studi sul riformismo settecentesco, avviati da Venturi e sviluppatisi per alcuni decenni fra Torino, Milano, Venezia, Firenze, Pisa, Napoli e Catania. Agli anni Sessanta Galasso fa risalire sia le prime significative influenze extradisciplinari, sia la formazione delle principali scuole “storiche” italiane. Alla storiografia italiana degli anni Settanta e Ottanta viene poi riconosciuta l’originalità dell’approccio microstorico, cui Galasso ha sempre guardato con attenzione critica, in grado di sottrarre una parte della più giovane storiografia a un’eccessiva subalternità alla storia economica e sociale di matrice braudeliana.
Pagine interessanti vengono dedicate alla storiografia economica italiana e alla sua originalità: da Luzzatto e Dal Pane a Zangheri e L. De Rosa, ma anche a Ruggero Romano, “certamente uno dei più inquieti storici e intellettuali della sua generazione” (p. 163), certo lo studioso più internazionale, in costante dialogo con la Parigi delle “Annales” e con il mondo latinoamericano. Piuttosto amaro è constatare come di questa tradizione di studi oggi rimanga pochissimo, mentre le cattedre universitarie di storia economica sono sempre meno, progressivamente espulse sia dai corsi di laurea di economia sia da quelli di lettere.
Capitoli significativi sono dedicati a due storici a sé stanti e oggetto di contestazioni negli ultimi anni della loro vita, come Rosario Romeo e Renzo De Felice, autori di due monumentali biografie, rispettivamente di Cavour (1969-1984) e di Mussolini (1965-1990), che rappresentano pietre miliari per gli studi, ma anche ipotesi interpretative non prive di spunti polemici che ci riconducono alle controversie storiografiche ancora irrisolte sulle origini del fascismo, sulla continuità fra Italia fascista e post-fascista e sulla natura del Risorgimento. Galasso non trascura, infine di considerare alcuni grandi progetti editoriali, come la Storia d’Italia Einaudi e la Storia d’Italia UTET, le grandi storie di città (Milano, Napoli, Venezia, Torino), le imprese editoriali di Nicola Tranfaglia sulla storia contemporanea, riconducendo le diverse e contrastanti letture collettive della storia d’Italia ai diversi contesti politici e culturali, oltre che storiografici e editoriali in cui le grandi opere si inseriscono.
Gli ultimi capitoli del volume di Galasso rappresentano un disincantato bilancio, a tratti amaro, di un “grande vecchio” della storiografia alle prese con mutamenti epocali e non solo generazionali tali da rimettere in gioco le stesse categorie storiografiche e interpretative con le quali gli storici si erano cimentati per più di un secolo. Se alla fine degli anni Ottanta del Novecento si poteva ancora affermare che “il prestigio della storiografia italiana non è mai stato così grande” (p. 214), da più di un decennio ci si interroga drammaticamente non solo sull’appannamento del senso storico nell’opinione pubblica, ma sulla scomparsa di riviste e collane di storia, sulla chiusura di istituti, sulla riduzione dello spazio della storia nell’insegnamento superiore e universitario, sull’analfabetismo storico del ceto politico. La professionalizzazione estrema degli storici ha condotto spesso all’incomunicabilità dei risultati della ricerca fra diversi settori disciplinari e fra specialisti e grande pubblico, più propenso ad ascoltare giornalisti e “opinionisti” che storici di mestiere. Così come la crisi della politica ha portato con sé la crisi della dimensione politica della storia, mentre si sviluppano ancora le storie culturali, l’antropologia storica, le storie psicoanalitiche ed emozionali; la crisi del concetto di storia ha portato con sé la crisi della stessa categoria della storicità. “La ripulsa, soprattutto, della storicità come fondamento conoscitivo e dimensione effettiva della realtà storica, posponendola o del tutto negandola rispetto ad altri moduli o istanze conoscitive ed effettuali, non poteva che riuscire esiziale per il lavoro storico che, in tanta varietà di dottrine e di scuole, era stato parte essenzialissima della moderna civiltà europea” (p. 219). Anche questi sono processi che gli storici dovranno saper contestualizzare e interpretare. Nonostante tutto la piccola o grande sfida rappresentata da questo libro conferma che di storia e storiografia si continuerà a ragionare.