Reviewer Fernando J. Devoto - Universidad Nacional de San Martín e Academia Nacional de la Historia (Argentina)
Citation1. Nel novembre 2017, i supplementi dei quotidiani “La Repubblica” e “Il Corriere della Sera” mostravano immagini di una lunga fila di persone che attendevano di entrare al teatro Bellini di Napoli (dopo aver pagato otto euro) per ascoltare Giuseppe Galasso nella prima conferenza del ciclo “Lezioni di storia”, organizzato dalla casa editrice Laterza. Questo accadeva due mesi dopo la pubblicazione della storia della storiografia italiana e tre mesi prima della morte del suo autore. L’immagine dello storico della città, inserito in un tessuto sociale e culturale, e nella città, che implica una situazione, un punto fermo, un ubi consistam, che si può contrapporre a un’altra immagine, quella dello storico ‘apolide’, senza patria, straniero e, in quanto straniero, in grado di collocarsi alla distanza necessaria per pensare ‘oggettivamente’, argomento che presentò già Luciano di Samosata nel II secolo e che si ritrova con simili o differenti motivazioni nella dromomania intellettuale attuale, alimentata dall’accentuata internazionalizzazione degli studi storici e non solo. Una posizione che poteva implicare per lo stesso Galasso una preoccupante ‘snazionalizzazione della storia’. Anche se Napoli è certamente una città speciale e Galasso non è stato solamente uno storico, ma anche un uomo pubblico.
Nel caso di Galasso quell’essere nella città significava anche almeno altre tre cose. La prima la segnalava egli stesso nelle pagine finali del libro che commenteremo qui come una caratteristica della storiografia italiana se osservata sul lungo periodo: “non concepire la storiografia come un colloquiare e interloquire soltanto tra storici e studiosi ma anche, se non addirittura soprattutto, come una risposta di storici e studiosi a ciò che nella vita sociale e civile, morale e culturale urge e preme come problema del presente dei soggetti implicati e interessati da tale urgenza e pressione” (p. 233). Atteggiamento che in Galasso si dispiegò senza espedienti e lo indusse ad assumere tutti i rischi che il coinvolgimento politico attivo e reale porta con sé. E si dice qui attivo e reale perché, fedele a quella che pure vedeva come parte di una tradizione italiana, egli poneva al centro la questione del potere, come mostrò in un fortunato saggio einaudiano. Non si limitava infatti alle comode retoriche cui, da posizioni contestatarie totalmente marginali, si fa ricorso nella storiografia attuale (posizioni che forse possono essere individuate come una delle lunghe eredità del Sessantotto), con propositi che potrebbero ben definirsi o estetizzanti o politically correct, ma privi di vocazione operativa.
La seconda è il legame con una tradizione in cui Galasso si era formato e di cui fu una delle figure più notevoli: lo storicismo crociano, anche se risulta difficile delimitare con precisione che cosa si intenda con tale espressione. Certamente la prima osservazione da fare è che quella tradizione era già diventata qualcosa di differente dopo la Seconda guerra mondiale e finanche prima della morte di Croce, come apparve chiaro già al momento della complicata scelta del direttore dell’Istituto di Studi Storici in cui Galasso fu borsista (1953-1954) e poi segretario (1958-1960), o dalle sottili prese di distanza che emergevano qui e là nei due volumi in onore di Croce curati nel 1950 da Carlo Antoni e Raffaelle Mattioli. In ogni caso, la nomina di Chabod, durante la cui direzione Galasso fu appunto alunno e segretario, era avvenuta più nel segno della discontinuità che della continuità. Comunque, l’espressione “crociano”, pur nella sua ambiguità, poteva applicarsi a lui più che a qualsiasi altro, e più ancora che a Franco Venturi, da Galasso stesso definito proprio “crociano” “per la sua attenzione alle idee e alla loro circolazione”, per la sua “concezione dello storico ‘soltanto storico’” e per la sua “idea dell’autonomia e della specificità della storiografia” (p. 153). Un Venturi, a giudizio di Galasso, molto più crociano di Chabod. Galasso poteva aggiungere a tali attributi una più accentuata interrelazione tra pensiero e azione (che in Venturi si declinarono con enfasi inversa in due momenti successivi), una preoccupazione che ebbe pochi eguali nella sua generazione per i rapporti tra filosofia e storia e per una storia della storiografia in cui entrambe si intrecciavano. E non sarebbe esagerato affermare inoltre che nella seconda metà del XX secolo tradizione crociana e tradizione napoletana diventarono quasi sinonimi. Si potrebbe ricordare ancora che non sembra essere esistito uno storico che conoscesse il pensiero di Benedetto Croce meglio di Galasso, come questi mostrò nel suo notevole Croce e lo spirito del suo tempo o nei tanti prologhi alle nuove edizioni delle opere dell’illustre intellettuale nato a Pescasseroli.
La terza annotazione è che al momento di riferirci tanto al Galasso intellettuale quanto allo storico, si dovrebbe specificare napoletano e italiano, dato che quell’identità regionale non era esclusiva né in contrasto con uno sguardo nazionale e con un fecondo dialogo con altre tradizioni della penisola. Lo dimostra, per citare un solo esempio, la selezione dei collaboratori per la Storia d’Italia che diresse per la UTET di Torino. A modo suo, possiamo supporre, gli sarebbe piaciuto includersi in quella genealogia di eroi positivi che sfilano nella sua opera e che pensarono l’Italia a partire dalla loro appartenenza meridionale, da Pietro Giannone a Giovanni Battista Vico, da Francesco de Sanctis allo stesso Benedetto Croce.
2. Il titolo di un libro e la sua periodizzazione, la scala temporale e quella spaziale definiscono fin dal principio molti dei suoi presupposti e influiscono non poco sui risultati. Il profilo della storiografia italiana che Galasso delinea non sfugge del tutto a tale considerazione. L’opzione di cominciare, anche se per sommi capi, con il V secolo, ha come postulato, in linea con Santo Mazzarino, una rottura con la tradizione intellettuale classica. Anche ammettendo, come fa l’autore, che prima dell’anno Mille non si possa parlare di una storiografia italiana ma piuttosto di una storiografia “in Italia”, non si esclude il fatto che Galasso ha scelto di operare con un’idea di nazione profondamente debitrice della tradizione romantica, nella sua declinazione specificamente italiana, se si vuole in linea con Chabod, che articola una nozione geografica con una presunta identità culturale e che, in ogni caso, si colloca a distanza dall’idea, che lo stesso Galasso critica nel libro, di nation building.
Le cose sono però più complesse, dato che il libro è composto di due parti realizzate indipendentemente e che seguono logiche differenti, e che forse sono state composte in momenti più distanti di quanto suggerisca la loro edizione. In effetti, la prima parte, una lunga introduzione intitolata Una tradizione di quindici secoli, pubblicata originariamente come apertura dell’Appendice VIII dell’Enciclopedia Treccani, con il titolo Il contributo italiano alla storia del pensiero, costituisce una interpretazione vibrante, intellettualmente situata nella tradizione storicista e non priva di spunti polemici, della realizzazione di quell’identità singolare, l’Italia, se osservata dal punto di vista delle sue elite culturali e non solo dei suoi storici. L’idea di storiografia propria di Galasso è infatti tanto estensiva da includere tra gli altri Petrarca, l’abate Galiani e Piero Gobetti. In tal modo, alla maniera di Croce, essa viene integrata in una storia del pensiero tout court. Questa tradizione è organizzata attorno a due motivi principali che le conferiscono significato: l’“Italia” e la sua affermazione intellettuale, maggiore o minore a seconda delle epoche nel concerto delle nazioni europee; e il “progresso”, declinato in forma non lineare ma problematica e non esente da una articolazione intorno alla dinamica progresso-reazione, in cui il primo termine è connotato da una razionalizzazione della storia nella quale la “parte maggiore e più originale e propria, procede, invece, per la via di una visione mondana e laica delle cose del mondo e della loro storia” (p. 111). Una storiografia così intesa, per quanto concerne la sua dinamica, appare molto più ritmata da fattori esterni che interni a essa – legati, questi, da un lato, alla posizione italiana in generale nel contesto europeo, in una riproposizione modulata del vecchio problema del ‘primato’ e, dall’altro, alla maggiore o minore ricchezza delle manifestazioni intellettuali della storiografia stessa, indipendentemente o meno dal fatto che esse si registrassero sul terreno storico, come una lettura più endogena avrebbe suggerito.
Di conseguenza due momenti ‘laici’ emergono come tempi proficui nel ‘profilo’: il Rinascimento e l’Illuminismo; il primo in quanto stabiliva una primazia italiana in Europa e il secondo in quanto significava un riagganciarsi nella storia del pensiero al treno europeo, perdutosi in una nuova era oscura (la prima era stata il Medioevo), quella della decadenza che inaugura, nella seconda metà del XVI secolo, la Controriforma. A questo proposito, Galasso si chiede se si debba o meno utilizzare l’espressione “Riforma cattolica”, ma dopo averlo fatto e aver lasciato aperta la questione, nel testo torna a impiegare il termine Controriforma (pp. 42-43). È interessante a questo punto osservare come l’utilizzo del modulo crociano non implichi che la sua storia della storiografia condivida necessariamente ogni singola prospettiva interpretativa di Croce. Tornando a osservare la Teoria e storia della storiografia di Croce si notano tutte le sue riserve verso la storiografia del Rinascimento (al di là del suo aspetto positivo rappresentato da una visione secolarizzata del mondo) e per un Guicciardini o un Machiavelli come storici (anche se considerava il secondo una delle vette del pensiero italiano), con il loro rimanere legati alle caratteristiche dell’antica storia pragmatica e al ruolo della fortuna nella storia, capace addirittura di schiacciare i piccoli spunti di una riflessione appoggiata all’idea di divenire storico presenti nel pensiero tardomedievale. Allo stesso modo, Galasso si discostava dall’idea che aveva Croce, o almeno il Croce della Teoria e storia, dell’Illuminismo come altro momento di pensiero astratto, razionalizzante e a-storico – riflessione che quest’ultimo non ripropone nella Storia come pensiero e come azione, dove il recupero dell’Illuminismo è parte di un processo più ampio di ripensamento tanto di questo concetto quanto di quello di Romanticismo, come ebbe a segnalare Imbruglia, nel contesto del mondo dei totalitarismi.
Le distanze con Croce possono forse essere messe in rapporto con il fatto che, oltre alle idee di Italia e progresso, l’opera di Galasso si articoli attorno a una terza: quella di secolarizzazione. Nulla di sorprendente in uno storico, intellettuale e politico profondamente laico. Nulla neppure da rimproverargli: in un’epoca di assenza di domande sul ‘senso’, un’opera che lo recupera e giunge persino a postulare l’importanza di una filosofia della storia ex post (p. 112), offrendo a partire da lì un’interpretazione forte della storiografia italiana, che come ogni interpretazione forte è più criticabile di altre, merita, in ogni caso, di essere celebrata. Certamente tra i prezzi da pagare c’era, per fare un esempio, la marginalizzazione degli eruditi, come quelli dell’epoca della Controriforma – e sui quali può essere interessante rileggere le considerazioni di Anthony Grafton –, espulsi dalla storiografia italiana per essere inclusi in una sterile storiografia “pontificia”. Gli stessi eruditi che Croce giudicava in modo ironico, però più benevolo, come animaletti utili al punto che, se si estinguessero, bisognerebbe trovare il modo di ripopolarne il territorio. Erudizione che, sarebbe bene non dimenticare, costituì e costituisce una nota distintiva e positiva della storiografia italiana anche nei tempi attuali.
I giudizi di Croce e Galasso tornano ad apparire tanto concordanti quanto discordanti nel momento in cui entrambi affrontano lo stesso tema (Croce con la Storiografia italiana nel secolo XIX), al di là del fatto che formalmente ambedue si dichiarassero, un po’ paradossalmente forse, tributari dell’opera di Eduard Fueter, all’occhio attuale davvero datata. In alcuni casi, Galasso torna a distanziarsi ora in forma più esplicita anche se non meno sottilmente formulata dalla prospettiva crociana, per esempio a proposito della storiografia neoguelfa e neoghibellina, in cui nuovamente il gruppo cattolico sconta la coerente visione di Galasso, che in alcuni momenti sembra ritrovarsi nella sottile frontiera tra prospettiva e parzialità (nel senso della distinzione di Chladenius ripresa da Koselleck). Le due visioni differiscono nuovamente in relazione al positivismo: più favorevole in questo caso quella di Galasso (anche nella considerazione della scuola economico-giuridica) e in particolare attenta a recuperare il suo contributo erudito, ora “di pregio” e filologico (pp. 93 e ss.). Completano lo schema della prima parte, al di là dei ritratti in chiaroscuro di Volpe e più simpatetico di Salvemini, delle brevi pagine molto suggestive sulla storiografia durante il fascismo e sull’impossibilità di pensare una storiografia fascista, vista l’eterogeneità di posizioni al riguardo, sia tra coloro che ritenevano di farne parte, sia includendo quanti approfittavano, pane lucrando, delle possibilità offerte dal regime.
3. Come detto, la seconda parte è un testo autonomo, che, con il titolo Dalla tradizione alla ricerca di altre dimensioni, propone un bilancio della storiografia italiana post 1945, con limitate incursioni nel periodo precedente. Come già Galasso segnalava nell’introduzione, quest’ultimo periodo presentava non pochi problemi, al di là di una crescente complessità, eterogeneità e litigiosità: non ultimo il fatto che lo stesso autore era ora non solo il soggetto che conosce ma anche parte dell’oggetto studiato, visto il rilevante ruolo da lui giocato nella storiografia dell’Italia postbellica. Forse questo spiega in parte il cambio di tono del volume, che abbandona rapidamente la questione della tradizione storiografica e il décalage temporale – dopo due piccoli excursus, uno all’indietro e l’altro in avanti per includere, nel secondo caso, una rapida descrizione della sopravvivenza della tradizione crociana nell’azionismo (via Omodeo), nell’Istituto di Napoli e nell’opera di Gramsci. Tale prospettiva propone un quadro tematico in cui il contesto perde importanza, nel quale Galasso sembra aspirare a un ecumenismo che dia a ciascuno il suo e uno dei cui effetti è l’inclusione di lunghe liste di nomi che possono avere senso soltanto in una prospettiva urbi et orbi, mirante a garantire dei riconoscimenti, ma che contrasta con il criterio molto più orientato e selettivo della prima parte. Il prezzo da pagare per questa volontà irenica, peraltro comprensibile tenuto conto della stagione della vita dell’autore, era rinunciare a un asse che articolasse il discorso e lasciare in secondo piano alcune linee interpretative che avrebbero permesso di combinare meglio le due metà. Pensiamo qui, per fare un esempio, al progressivo distanziarsi della storiografia italiana in primis da Croce e poi da tutta la generazione attiva tra le due guerre, crociana o meno. Un contrasto che divenne manifesto, per fare alcuni esempi, con l’aspro dibattito Chabod-Momigliano a proposito del necrologio di Carlo Antoni scritto da quest’ultimo (e approfonditamente analizzato da Gennaro Sasso); con la morte di Chabod, che aprì una nuova epoca, come comprese con grande chiarezza Cantimori; con l’emergere di nuove tensioni per la direzione della Rivista Storica Italiana (risolte a favore di Venturi e non di Romeo); o infine con le crescenti differenze, anche metodologiche, tra il nuovo gruppo che la dirigeva e la storiografia comunista. Per illustrare questo conflitto potrebbe bastare la battuta di Venturi in una lettera a Momigliano: “Hai visto il primo numero della rivista dell’Istituto Gramsci diretta da Manacorda, ‘Studi Storici’? Da Marx a Crivellucci sarebbe stato anche più espressivo”; osservazione che bacchettava la miscela di filologia e ideologia caratteristica di molti settori della storiografia comunista del dopoguerra e non solo di quella italiana. Per altri versi, naturalmente, Galasso era un protagonista centrale, sia sul piano istituzionale sia in quello intellettuale, di quel momento di passaggio che ne anticipava un altro, aperto con il Sessantotto.
Se Galasso ha deciso di non adottare un disegno che lo avrebbe costretto a fare i conti anche con le divisioni e le fratture dentro la sua stessa tradizione, laica e riformista, neppure ha voluto organizzare il profilo del secondo dopoguerra attorno a linee ideologiche (storiografia comunista, cattolica, liberale ecc.). Questo lo avrebbe obbligato a porre in rilievo ancora di più il peso della tendenziosità politica che per altri versi tanto fu rimproverato alla storiografia italiana, e che invece il testo cerca di attenuare e in parte giustificare con l’ingegnoso argomento secondo cui si sarebbe trattato di una deriva della caratteristica di lungo corso della tradizione intellettuale italiana: la centralità nella sua riflessione del “politico” e del “potere” (pp. 216-217). Nondimeno, scartando questo approccio – non del tutto, poiché qui e là esso ricompare, per esempio nella parte relativa alla storiografia gramsciana – Galasso ha eluso anche il problema delle logiche della professione, che lo avrebbero costretto a confrontarsi con gli interessi, politici e non, di gruppi che ebbero tanta decisiva importanza nel disegnare la mappa dell’accademia italiana attraverso concorsi che seguivano ferrei procedimenti clientelari (percepibile persino per uno straniero nelle incessanti discussioni che si svolgevano al riguardo dagli anni Ottanta) e che conferiscono alla storiografia italiana nel suo insieme quell’aspetto sconcertante per cui lavori eccezionali possono stare accanto ai più scadenti. Dislivelli che forse possono aiutare a capire una delle inquietudini di Galasso: la frammentaria e diseguale ricezione della storiografia italiana fuori d’Italia.
Anche se lo evoca ed episodicamente lo utilizza, Galasso non privilegia neppure il criterio generazionale nella sua esplorazione della storiografia del secondo dopoguerra. Sottolinea molto bene tutti gli inconvenienti di un utilizzo sistematico della nozione e indica come molto più illuminante una riflessione su maestri e discepoli. In un certo senso, la sua proposta si avvicina più a un impiego minimalista, à la Mannheim, dell’idea di generazione (non sempre e non tutti), che a un uso à la Ortega y Gasset o à la Giuseppe Ferrari.
Scartate queste vie, che nell’uno e nell’altro caso avrebbero forse implicato una scansione temporale dell’analisi, Galasso opta per organizzare il rapporto attorno a settori accademici come storia antica, medievale ecc., o a campi disciplinari come storia giuridica, economica o demografica (dove si segnalano giustamente i nomi di Massimo Livi Bacci e Nora Federici ma manca quello tanto ingombrante quanto rilevante di Corrado Gini), introducendo in alcuni casi i dibattiti che si producono all’interno della sezione (particolarmente riusciti sono la contrapposizione Momigliano-Mazzarino per la storia antica o il dualismo Volpe-Salvemini per quella medievale). Questi bozzetti sono accompagnati da ritratti di alcuni dei maggiori storici italiani del periodo, da Chabod (non senza riserve) a Cantimori, a Venturi o anche a Ernesto De Martino (se vogliamo includerlo tra gli storici), calorosamente elogiato. Tuttavia, i ritratti maggiori sono dedicati a Rosario Romeo e Renzo De Felice. Anche se in quasi tutti questi casi si tratta di figure che Galasso aveva analizzato esaustivamente nel suo importante Storici italiani del Novecento, rimane significativa la selezione dei nomi (con l’eccezione di De Martino), che implicitamente è allo stesso tempo una gerarchia che ordina preferenze e precedenze, lasciando nell’ombra altri studiosi.
Due questioni, almeno, meritano di essere sottolineate qui: nel caso di Rosario Romeo, Galasso si sofferma giustamente sui due saggi pubblicati su Nord e Sud, riuniti successivamente nel volume Risorgimento e capitalismo. Già nel primo di essi, nel 1956, Romeo attaccava “la storiografia politica marxista” (che forse sarebbe stato meglio definire comunista) e la valutazione negativa del Risorgimento che essa dava attraverso la nozione di “rivoluzione agraria mancata”, attribuita da Romeo tanto a Gramsci quanto a Emilio Sereni e cui opponeva una visione positiva sia del Risorgimento nel suo complesso, sia dell’operato della destra storica. Galasso non sceglie però questa via: preferisce alludere alle osservazioni di Gerschenkron sul tema, più raffinate tecnicamente e concettualmente più complesse, ma lascia aperta la questione senza seguire la lunghissima serie di interventi che culminarono nel completo superamento della polemica iniziale, con quello che fu chiamato il modello Bonelli-Cafagna, ovvero l’idea di uno sviluppo frammentato, diseguale e temporalmente sfalsato. Nel caso di De Felice, le non poche osservazioni critiche che Galasso aveva inserito nel suo saggio di dieci anni prima, in particolare relative alle difficoltà del modello biografico nel contenere la complessità crescente dell’opera mano a mano che uscivano i successivi volumi, sono qui scomparse e l’elogio è privo di riserve visibili.
La volontà irenica di Galasso incontra un limite molto evidente in un caso che riappare forse troppo spesso nel testo, quello di Ruggiero Romano. I due storici condivisero un pezzo di strada in comune, la formazione a Napoli (e l’insegnamento, tra gli altri, di Nino Cortese), il passaggio dall’Istituto per gli Studi Storici (più breve per Romano) e poi seguirono due percorsi molto differenti, uno verso l’interno, l’altro proiettato verso l’esterno (Francia e poi anche America Latina). Differenza che ne portava con sé un’altra: la tradizione dello storicismo crociano contrapposta alle “Annales” braudeliane. Era lì il punctum dolens? In ogni caso, bisognerebbe ricordare che anche se le distanze tra Braudel e Croce furono grandi (Braudel lasciò traccia scritta di ciò, e Croce fisica, dato che sembra abbia dormito un bel po’ durante la conferenza dell’autore de Il Mediterraneo a Napoli), esisteva un ponte, e questo era Chabod, quella figura “hors série”, come lo definiva Braudel dalle pagine delle “Annales”. O, invece, le differenze devono cercarsi nel fatto che i due si trovarono in galassie differenti in Italia: Torino e casa Einaudi per Romano, Napoli per Galasso? O devono essere messe in rapporto con il fatto che le iniziative che promossero erano in chiara competizione, come nel caso delle due storie d’Italia dirette da Romano, in particolare quella einaudiana, e quella diretta da Galasso per UTET? Il libro di Galasso si sofferma abbastanza pro domo sua sulle diverse storie d’Italia, collettive e individuali, anche se il nodo principale è chiaramente la contrapposizione tra la proposta Romano-Vivanti-Einaudi (che non fu un editore passivo) e quella dello stesso Galasso. Questi non mancò di segnalare le difficoltà della collettanea rivale nella difficile combinazione “Annales”/Gramsci, in cui vedeva più un’operazione culturale che una plausibile operazione storiografica. Era più congruente l’operazione proposta da Galasso? Uno studio comparato di entrambe le opere, con i problemi che implicano tutte le collettanee con molti autori, è un lavoro ancora da fare. In ogni caso, Galasso aveva contribuito con un saggio importante (poi esteso e trasformato in un libro) anche alla Storia einaudiana.
Forse un angolo dal quale inquadrare la questione è la storia economica, in cui la polemica con Romano rispetto al livello della storia economica in Italia va di pari passo con l’appoggio alle riserve di Luigi De Rosa sulle derive della disciplina a partire dall’influsso degli economisti. Tema più complicato di quanto sembri, dato che tra la cliometria e il trattamento della storia economica in una pedestre forma descrittiva esistono molti gradi intermedi che mostrano le potenzialità delle middle range theories o l’utilità dell’uso, se non di concetti, almeno di vocaboli adeguati. In ogni caso, ciò che qui emergeva era un nodo più profondo che distingueva Galasso e la tradizione dello storicismo, che era la sua: la sfiducia nelle scienze sociali.
Molte più cose contiene questo libro, molte domande, problemi, osservazioni illuminanti e provocanti, sguardi pieni di ricchezza e complessità. C’è da temere che il presente commento non sia stato in grado di dar conto che di una minima parte di esse. C’è da sperare che, quantomeno, sia servito per invogliare alla sua lettura.