Reviewer Umberto Cecchinato - Scuola Normale Superiore - Pisa
CitationIn un momento in cui il tema dell’Altro è al centro dell’attenzione mediatica e ha stimolato un rinnovato interesse nella ricerca storica, Alessandro Arcangeli propone lo studio di una pratica che, in passato, svolse un ruolo importante per l’identità dei diversi gruppi sociali. Se nel Rinascimento la danza contribuì alla formazione di un codice etico ed estetico della postura e dell’incedere che diventò emblema identitario delle nuove aristocrazie,[1] nello stesso periodo furono elaborati molti stereotipi che, in senso parodico o demonizzante, riproponevano il ballo come un segno dell’alterità, sottolineandone le movenze esagerate e caotiche, di segno contrario a quello delle buone maniere. L’altro che danza indaga quest’ultima parte, proponendo al lettore un percorso articolato in tre figure principali (il villano, il selvaggio, la strega) e tracciando la storia della loro elaborazione nell’immaginario dell’epoca moderna. La trattazione è condotta su un’ampia tipologia di fonti e adotta l’approccio multidisciplinare tipico dei cultural studies.
Nel primo capitolo, dedicato al ballo contadino, Arcangeli prende in esame una serie di fonti iconografiche di area tedesca e fiamminga (Albrecht Dürer, Sebald Beham, Bruegel il Vecchio e Rubens). Sono fonti di difficile interpretazione: esse non sono frutto dell’osservazione diretta dei fenomeni che ritraggono, ma ripropongono stereotipi che oscillano tra la “stigmatizzazione del rustico in quanto incivile” e la “mitizzazione del naturale quale incorrotto” (pp. 28-29). Da un lato le immagini condannano le danze campestri, parodizzando i gesti sfrenati dei contadini che ballano e mettendo in evidenza gli eccessi nel bere e nel mangiare; dall’altro conferiscono alle scene un’aurea mitologica, come accade nella Danza campestre di Rubens. Ad ogni modo, queste immagini hanno supportato “processi di auto-identificazione di un gruppo sociale (benestante)” (p. 24): idealizzando l’alterità del mondo rurale (comprese le feste e le danze che vi si tenevano), il cittadino creava una propria identità.
Nell’epoca delle scoperte geografiche e delle missioni di evangelizzazione, la figura del selvaggio, alla quale è dedicato il secondo capitolo, suscitò grande interesse nella cultura europea e araba. La conseguente produzione di fonti a riguardo è vasta: la letteratura di viaggio, le relazioni dei missionari cattolici, le incisioni che spesso corredano questi scritti. Uno degli aspetti sempre ricorrenti nelle descrizioni del selvaggio è la danza: ma anche in questo caso le fonti pongono problemi di interpretazione. La letteratura di viaggio, per esempio, anche se dichiaratamente basata su osservazioni dirette o testimonianze attendibili, spesso si rivela frutto di un’opera di collage che unisce gli appunti dei viaggiatori con brani presi da opere già pubblicate (quando non era del tutto confezionata a tavolino dai cosiddetti armchair travellers). Questi rimpasti provocarono anche la generalizzazione degli stereotipi: che risieda nell’America precolombiana o nell’Africa nera, il selvaggio è descritto come un danzatore instancabile e sfrenato che preferisce passare il suo tempo tra canti, suoni e balli piuttosto che lavorare, un’immagine che ricorda anche le feste contadinesche.
Il problema della generalizzazione degli stereotipi appare in tutta la sua evidenza nel ballo delle streghe, al quale è dedicato il terzo capitolo. Le immagini (sia iconografiche sia letterarie) dei sabba restituite dai trattati di demonologia fanno ampio uso degli elementi appena visti. Un caso esemplare è offerto da Pierre de Lancre, giudice guascone impegnato nella repressione della stregoneria nei Paesi Baschi. Nel suo trattato Tableau de l’incostance des mauvais anges et demons (1612) egli raccoglie una serie di testimonianze dirette degli imputati, ai quali ordina di inscenare le pratiche sabbatiche da loro esperite. Il processo porta de Lancre ad appurare l’esistenza di tre tipi di balli sabbatici: il primo “alla maniera degli zingari, dato che anche i corridori gitani sono per metà demoni”; il secondo “consiste di salti, come fanno gli artigiani per strade delle nostre città, dei villaggi e dei campi”; il terzo è condotto “con le spalle girate, ma i danzatori si tengono stretti per mano senza mai lasciarsi andare” (p. 82) e ricorda la calenda, un ballo della Guinea importato nei Caraibi dagli schiavi neri, che si praticava “in cerchio, ma rivolti verso l’esterno” (p. 50).
Sulle figure dell’alterità viste finora confluisce dunque tutto ciò che andava contro alle movenze della danza misurata imposta dalle buone maniere. Il ballo caotico diviene un simbolo usato dalle élites per differenziare e differenziarsi, per descrivere e interpretare ciò che percepiscono come diverso. Al contempo però, l’alterità ne risulta appiattita, e le tre figure prese in esame si mescolano: sarebbe interessante approfondire questo gioco di sovrapposizioni in futuri studi.
Il libro completa un’indagine iniziata da Arcangeli sin dai tempi del dottorato e inserita in una precedente monografia[2]. L’esperienza dell’autore traspare chiaramente dalla ricchezza di spunti (sia metodologici sia aneddotici) contenuta nelle poche pagine che formano il libro. L’altro che danza getta nuova luce su processi culturali che Peter Burke ha definito come il distacco delle classi dominanti dalle forme della cultura popolare. Ciò costituisce una riconferma che il tema, come sottolineato da Ottavia Niccoli”[3], merita di essere preso in considerazione dalla comunità degli studiosi con nuovi approcci metodologici.
[1] L’autore ha affrontato tale aspetto nel contributo La disciplina del corpo e la danza, in P. Prodi (ed), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, Monografie, 40), Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 417-436.
[2] A. Arcangeli, Davide o Salomé? Il dibattito europeo sulla danza nella prima età moderna, Fondazione Benetton Studi e Ricerche, Roma, Viella, 2000.
[3] O. Niccoli, Cultura popolare: un relitto abbandonato? in “Studi storici”, 2015, 4, pp. 997-1010.