Reviewer Tiziana Plebani - Società Italiana delle Storiche
Citation“Si tiene per certo che la badessa di Castro ha parturito uno putto, dicesi il padre esser il vescovo”[1]. Questa informativa, scritta il 9 settembre del 1573, da un agente della famiglia Farnese, fotografa il momento in cui una vita ordinaria, quella di una badessa, pure se di importante famiglia, deviava dall’oscuro e consueto corso cui era destinata per assurgere ad ‘affare pubblico’, a oggetto di pettegolezzi, dicerie, congetture dei contemporanei sino a farne la protagonista di un processo apertosi al tribunale dell’Auditor Camerae di Roma.
Vicende di tal genere non erano poi così rare, data la spinosa questione della collocazione delle figlie che le famiglie dovevano affrontare, con le conseguenti monacazioni forzate; le disposizioni del Concilio di Trento, compresa la prescrizione della clausura imposta nel dicembre del 1573, faticarono a far piazza pulita dell’abitudine a frequentazioni promiscue, tollerate soprattutto nei riguardi delle donne provenienti dal patriziato. È questo il caso della protagonista di tale vicenda, Elena Orsini, al secolo Porzia, figlia del conte di Pitigliano e imparentata con i Farnese, nata intorno al 1542 ed entrata nel monastero delle Visitatrici di Viterbo nel 1557, divenendo prima priora e poi badessa nel 1565. Elena poté contare su ampie deroghe alla disciplina claustrale, all’epoca ancora concesse a una giovane di tale lignaggio, compresa la gestione autonoma della propria stanza, di cui possedeva la chiave, e il mantenimento delle relazioni con il proprio casato che tendeva a governare la vita stessa del convento.
Del resto era in uso da tempo un tollerato sistema di ‘compensazioni’ a una scelta imposta o dettata dall’assenza di alternative, e, nel caso di Porzia, forse accettata come rifugio dal clima di violenza vissuto in famiglia. Non solo a Elena venne impedito il matrimonio ma fu obbligata dall’influente zia Gerolama Orsini Farnese, fondatrice del monastero, a trasferirsi con le consorelle da Viterbo a Castro. Quest’ultima aveva goduto di un breve periodo di splendore dacché papa Paolo III Farnese l’aveva eretta nel 1537 a capitale del ducato creato per il figlio Pier Luigi, cui erano seguiti anni di abbellimenti e fortificazioni atti a trasformarla in una cittadella rinascimentale. Tuttavia Pier Luigi, divenuto nel 1545 duca di Parma e Piacenza, se ne era andato da Castro lasciando incompiuto il programma di edificazioni, che venne del tutto abbandonato per la morte dell’architetto Antonio da Sangallo e ancor più per la fine violenta del Farnese, ucciso il 10 settembre del 1547.
Quando nel marzo del 1566 Elena Orsini e le consorelle giunsero a Castro si trovarono pertanto al cospetto di una città “imperfetta” e disabitata, al centro di una zona infestata da briganti e soprattutto ammorbata da un clima malsano che continuava a mietere vittime. La loro stessa collocazione era provvisoria, il convento in realtà raggruppava alcuni edifici poco consoni e incompleti, privi di cappella, e necessitava di interventi. Che dunque Elena dovesse intrattenersi con il vescovo Francesco Cittadini, giunto a Castro nel 1569, per progettare e sovrintendere ai lavori di restauro era più che comprensibile; ciò che accadde tra loro, la confidenza intima e carnale che portò alla nascita di un figlio, va però letta, come giustamente suggerisce Lisa Roscioni, alla luce dello spirito di quel luogo particolare dove tutto andava in rovina, tanto da imporre un clima claustrofobico che accumunò la badessa e il vescovo, un milanese abituato ad ambienti più prestigiosi e meno isolati, in quel sentirsi “entrambi in trappola” (p. 42).
Che cosa rende differente questa vicenda da molte altre simili ma avvolte ancora nell’ombra degli archivi? Il fatto di essere giunta sino a noi attraverso una catena di narrazioni e rielaborazioni che ha avuto il proprio culmine in due eventi congiunti: l’interesse che suscitò per Stendhal, grazie alla consultazione di una cronaca secentesca, che lo spinse a farne materia di un romanzo storico L’Abbesse de Castro, uscito nel 1839, presentandolo come una traduzione “da due voluminosi manoscritti, uno romano e l’altro fiorentino” di tardo Cinquecento, e d’altro canto la riemersione poco più tardi di un manoscritto riportante il processo subito da Elena Orsini, documento incontestabilmente autentico, tanto da riportare in calce le firme degli interrogati, tra cui quella della badessa. Sottratto dall’archivio dell’Auditor Camerae, comparve nella collezione che Guglielmo Libri mise all’asta a Londra il 31 marzo del 1859, alludendo al fatto che fosse la fonte di Stendhal e fatto acquistare da Antonio Panizzi per la British Library, dove è tuttora conservato. In piena atmosfera risorgimentale, alimentata all’estero da patrioti esuli come Libri e Panizzi, questa vicenda di vite sacrificate da potenti famiglie e dal tribunale ecclesiastico fece da sprone allo spirito anticlericale, alla condanna della tirannide e all’anelito alla libertà d’Italia, costituendo “un significativo tassello del processo di formazione dell’idea di Rinascimento e di italianità … quando l’Italia era ancora soltanto un sogno” (p. 163).
La scelta di Lisa Roscioni è stata quella di raccontare la vicenda alla luce delle modalità con le quali è stata narrata, analizzando le ragioni interne alle logiche e agli stili di trasmissione proprie di ogni epoca, dettati anche dall’ampliamento e dalla differenziazione del pubblico dei lettori, fosse quello secentesco solleticato dalle cronache di fatti criminali o quello ottocentesco sedotto soprattutto dall’intrigo romanzesco: si tratta pertanto di una chiave di lettura molto attuale che pone al centro il piano della comunicazione e della relazione tra pubblico e produttori delle notizie. L’autrice, dopo la presentazione dei luoghi, dei personaggi e del processo, con una scrittura di grande efficacia, conduce infatti il lettore a scoprire gli ingranaggi di costruzione e ricostruzione della vicenda che non si traducono meramente in un “progressivo, inesorabile allontanamento dalla realtà” (p. 10) bensì hanno dato vita a un processo ben più articolato, per nulla ‘naturale’ e dal risultato originale. Roscioni mette a nudo i diversi storytelling che si sono succeduti e riflette su ciò che via via rimane in campo della storia della badessa.
Lisa Roscioni ci porta dunque su un terreno cruciale per chiunque si occupi di storia e che interroga il rapporto tra verità storica e narrazione, e ancor di più il grado di conoscibilità del passato, messo in discussione nella storiografia contemporanea da approcci improntati da un lato allo scetticismo storico dall’altro al decostruzionismo linguistico, in cui anche la storia è vista come uno degli ambiti della narratività e della retorica, né più oggettiva né più vera di altri[2].
E alla fine dunque cosa rimane? Quanto conosciamo davvero di ciò che volle e che visse Elena Orsini? L’autrice propende per un approccio che non è privo di insidie e che appare fertile e stimolante proprio perché riapre il fronte del dibattito cui prima si accennava: Roscioni suggerisce infatti di “considerare il concetto stesso di verità, ma anche di fatto, come costruzione complessa, sostanzialmente argomentativa, frutto di negoziazione tra amministrazione della prova, interrogazione delle fonti e modalità narrative di ricostruzione dei fenomeni” (p. 10). La verità è, in altre parole, indistinguibile dalle modalità e dagli stili con cui i fatti sono stati narrati. Si può concordare o meno con Lisa Roscioni ma è indubbio che la sua indagine, condotta con maestria, è di grande interesse, pur confinando in una zona opaca proprio la figura di Elena Orsini che, dagli elementi raccolti dai documenti, non appare né una donna sottomessa né priva di agency. La perizia dell’analisi, la messa a fuoco di contesti e temi significativi del Rinascimento e del Risorgimento, l’incrocio sapiente con la storiografia più avvertita sulla storia di genere, sulla vita dei monasteri femminili e le monacazioni forzate, sul ruolo delle grandi famiglie e le loro strategie di potere, rendono questo libro particolarmente prezioso.
[1] Lettera di Pietro Ceuli agente dei Farnese al duca Ottavio, 9 settembre 1573, citato nel volume a p. 45.
[2] Rinvio per questo dibattito a C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006, nonché al volume di H. White, Forme di storia: dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Roma, Carocci, 2006 e agli interventi, seguiti all’uscita del volume, da parte di F. Benigno, G. Calvi, L. Baldissara, L. Passerini, in “Contemporanea”, 3, 2008, pp. 515-538; rimando infine alla più recente focalizzazione della questione da parte di M. Martinat, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporanea, Milano, Et Al., 2013.