Reviewer Claudio Ferlan - FBK-ISIG
CitationIl monopolio statale dei tabacchi ha radici lontane, come Stefano Levati spiega in un lavoro frutto di scavi archivistici approfonditi e risultato di una lunga ricerca, che si colloca in una cospicua tradizione storiografica sul tema, testimoniata dall’ampia ed esaustiva bibliografia finale (pp. 245-267).
Il libro inizia da Colombo, che menzionò delle foglie secche molto apprezzate dagli indigeni già nel diario del suo primo viaggio. La pianta attraversò presto l’oceano, arrivando nel Vecchio Continente nei primi anni del Cinquecento, inizialmente come pianta ornamentale e poi come prodotto medico-farmaceutico. Proprio alla diffusione del tabacco è dedicato il primo capitolo, che mette in luce il ruolo di marinai e soldati, presto abituatisi a usarlo come lenitivo per le fatiche e per la fame. Parlando tra l’altro delle modalità di assunzione della foglia, diverse a seconda delle classi sociali, delle polemiche pro e contro la sua consumazione e della letteratura seicentesca dedicata a questi argomenti, Levati si occupa qui di cultura del tabacco in senso lato. Il resto del volume si concentra invece soprattutto sulla sua economia, lasciando da parte aspetti di costume che avrebbero sollevato più di una curiosità.
Con il secondo capitolo l’autore comincia a trattare il proprio tema portante: la privativa sul tabacco, definita già in precedenza come “l’imposizione di un monopolio sulla produzione e il commercio del bene” (nota 66, p. 27). Si tratta di un regime concretizzato in maniera tutto sommato molto simile dagli Stati italiani e collocato in agenda già prima della metà del Seicento. La copertura geografica dell’indagine è esaustiva: Napoli, Torino, Venezia, Milano, Firenze, Roma, ducati dell’Italia centrale. La ratio dell’imposta era pressoché dappertutto la stessa: un bene voluttuario poteva essere tassato, come dimostrato dalla frequente associazione tabacco/acquavite propria della legislazione di età moderna; un accostamento culturale che meriterebbe ulteriori indagini. Solletica la curiosità del lettore anche la nota, dedicata in particolare a Roma, sulle tabaccherie come luoghi d’incontro, alternative a bettole e osterie (p. 84).
I capitoli terzo e quarto, riservati al mercato illegale e al controllo del territorio, costituiscono un unico corpus narrativo. Ricostruiscono la lotta al contrabbando, in un sistema che nella stragrande maggioranza dei casi prevedeva la cessione in appalto del monopolio dallo Stato a imprese private, sulle quali pesavano gli oneri della sorveglianza e della repressione dell’illecito. Impresa difficile, specie a fronte della consapevolezza che tra i protagonisti del contrabbando risaltavano nobili, clero e militari, accomunati questi ultimi da privilegi legati alla loro collocazione sociale e alla benevola condiscendenza dei superiori: “la pratica del contrabbando si presenta ben più articolata e complessa e profondamente innervata in un tessuto sociale e culturale estremamente recettivo, all’interno del quale qualsiasi posizione di vantaggio – formalmente riconosciuta o meno che fosse – veniva abilmente sfruttata” (p. 130).
Al di là dei privilegi personali, a complicare la lotta contro il contrabbando intervennero anche le specificità territoriali e politiche dell’Italia di antico regime, segnata da un’intricata rete di frontiere interne ed esterne, non solo terrestri. Non è da sottovalutare poi il sentimento popolare, che di norma considerava il commercio di frodo una legittima fonte di integrazione del reddito. Testimoniata dalla ripetuta frequenza di provvedimenti rispettati da pochi, l’inefficacia di sorveglianza e repressione era determinata anche da fragilità e limiti di funzionamento dei corpi armati, cui era affidato il controllo dei contravventori. Il reclutamento dei sorveglianti e il costo del loro mantenimento erano questioni assai delicate: il mestiere dell’esecutore di giustizia era infatti considerato vile e infamante, per il singolo come per la sua famiglia. Ciò faceva sì che tra gli assoldati vi fossero militari in congedo, disertori, perfino contrabbandieri condannati per gravi delitti e arruolati con la promessa di una riduzione di pena o addirittura dell’immunità.
L’ultima parte del volume (capitoli quinto e sesto) è dedicata al cambio di prospettiva in merito alla tassazione del tabacco tra secondo Settecento e primo Ottocento. Levati si occupa prima di esaminare, attraverso alcuni esempi rivelatori, le soluzioni adottate dagli Stati italiani a fronte dell’impossibilità di frenare il contrabbando e le raccoglie in quattro tipologie: l’abolizione della privativa e la liberalizzazione del commercio (Stato pontificio, Granducato di Toscana e Regno di Napoli); una severa politica di erosione del privilegio, soprattutto territoriale (Repubblica di Venezia), l’integrazione verticale di coltura e produzione del tabacco e la razionalizzazione ovvero l’accentramento dell’intero sistema amministrativo e produttivo nelle mani dello Stato (Regno di Sardegna, Repubblica di Genova e Stato di Milano). Dall’abolizione della privativa in Francia (legge del 21 marzo 1791) prese il via una serie di provvedimenti simili nelle varie repubbliche italiane nate dall’impresa napoleonica. Ma il provvedimento ebbe vita breve: incapaci di rispondere alle crescenti esigenze finanziarie conseguenti soprattutto alle spese militari, i governi provvisori dovettero rinunciare all’abolizione della privativa, ma furono capaci di organizzarla in maniera molto più fruttuosa che nei secoli precedenti, grazie anche al coinvolgimento di capaci imprenditori.
In conclusione, si può definire raggiunto l’obiettivo esplicitato nell’introduzione, quello cioè di presentare una ricerca capace di dimostrare come lo studio del tabacco rappresenti una prospettiva di lettura della storia dell’Italia moderna del tutto particolare ma al contempo emblematica e utile per ricostruire e meglio comprendere le dinamiche di organizzazione e di sviluppo delle società e degli Stati d’antico regime (p. 11). Il libro non può però dirsi sempre di facile lettura, soprattutto a causa della scelta dell’autore di inserire nel testo una assai nutrita quantità di citazioni documentali, talvolta piuttosto lunghe.