Reviewer Franco Motta - Università di Torino
CitationQuesto volume arriva a coronamento di un meditato percorso di studio che ha visto l’autore intervenire con eccellenti contributi sul tema delle origini dei gesuiti, vale a dire sulla fase della loro storia che si lascia grossomodo collocare fra l’avvio dell’esperienza religiosa del gruppo riunito attorno a Ignazio e l’avvento del generalato di Claudio Acquaviva (1581). In sintesi, quello che l’autore ci indica, con dettagliate evidenze, è che la storia più antica dei gesuiti nasconde un nucleo spirituale finora scarsamente conosciuto e, quel che più conta, sorprendentemente eterodosso.
Certo, che i gesuiti fossero frequentemente accusati di scelte teologiche insicure e poco ortodosse dai loro nemici provenienti dagli ordini regolari e dall’ambito del gallicanesimo, fra Cinque e Seicento, è risaputo; così come ben noti sono i tre processi intentati dall’Inquisizione spagnola (seguiti poi da una coda di interrogatori e sospetti fra Parigi e Venezia) contro il fondatore per il suo sospetto “alumbradismo”. Ma che un tale timbro ereticale fosse invece percepito dai primi membri della Compagnia come una nota distintiva della propria identità spirituale, e in quanto tale rivendicato e trasmesso nell’ombra di una tradizione riservata, sotterranea, è un esito certamente inatteso, che lascia presagire una profonda alterità fra la Compagnia ‘istituzionale’ e ‘trionfante’ dell’età barocca e quella delle prime generazioni dei gesuiti (i “primi compagni” di Ignazio e quanti ricevettero da loro la formazione spirituale): una Compagnia per così dire ‘antichissima’, quest’ultima (se vogliamo usare la consueta divisione fra ‘antica’ e ‘nuova’ Compagnia, separate dall’età della soppressione), obliqua nei linguaggi, fortemente carismatica nella religiosità e iniziatica nella scelta del ceto dirigente.
Maschere dell’identità è dunque un titolo azzeccato, perché quelle che i protagonisti di tale stagione della Chiesa indossano – oltre a Ignazio i nomi chiave sono quelli di Laynez, Ribadeneyra, Polanco, e soprattutto Jerónimo Nadal, interprete del pensiero di Ignazio – sono vere e proprie maschere che, nella forma di codici linguistici e comportamentali, celano l’autentico volto spirituale dell’ordine. È subito chiaro che il volume ha la natura di un imponente lavoro di decodificazione volto a inseguire una leggibilità del primitivo modo d’essere dei gesuiti, attraverso l’analisi di testi noti e meno noti prodotti all’interno del cenacolo ignaziano, come l’Epistola de Patre Ignatio di Laynez e il Summarium Hispanum di Polanco del 1547, gli Acta Ignatii, le memorie autobiografiche del fondatore raccolte da Luís Gonçalves de Câmara nella prima metà degli anni Cinquanta del XVI secolo, fino alla Vita di Ribadeneyra, del 1572.
È su quelli che sono evidentemente considerati caratteri fondativi dell’originaria esperienza ignaziana, in particolare la natura apostolica dell’ordine e le persecuzioni subìte dal fondatore, che l’autore costruisce la propria lettura delle origini gesuitiche, individuando e decifrando indizi di un linguaggio nascosto sotto la superficie attraverso un lavoro di analisi semiologica che solo una rilevantissima padronanza di quel genere di letteratura ha consentito. Uno fra i capitoli a mio parere più significativi riguarda, ad esempio, quel sempre invocato e sempre sfuggente sigillo di appartenenza gesuitica che è il “nostro modo di procedere”, consustanziale all’azione di governo dell’ordine. Per l’autore esso è da identificare con una sostanziale indipendenza dall’adesione rigida a determinati contenuti teologici, indipendenza indotta dalla centralità dell’esperienza illuminativa, in favore invece dell’attenzione per l’aspetto funzionale del linguaggio e dell’azione.
Sono l’importanza dell’esperienza spirituale indotta dagli esercizi e questo atteggiamento di indifferenza dottrinale – concepibile, naturalmente, solo all’interno della cerchia più ristretta dei professi del quarto voto – ad alimentare il verticismo e il profilo fortemente gerarchico della Compagnia. Se l’esperienza fondativa è quella del contatto interiore con Dio, allora solo chi l’ha vissuta nel proprio cuore vive per intero della vita spirituale che ha plasmato la biografia di Ignazio e dei primi compagni; è il medesimo “spiritualismo gradualistico e anomico” (276) degli alumbrados e di Juan de Valdés a ritrovarsi germogliato nelle ‘milizie del papa’. Ecco dunque i gesuiti inseriti a pieno titolo tra i figli della crisi religiosa del Cinquecento, seppure dallo stesso lato degli spirituali, cioè su quello opposto rispetto ai teologi dell’ordine domenicano e all’Inquisizione.
Maschere dell’identità è un lavoro di assoluto rilievo all’interno dell’ormai lussureggiante storiografia sui gesuiti e, in senso più ampio, di quella sulla crisi religiosa del Cinquecento. Di certo le opere più note e diffuse sul primo periodo della Compagnia di Gesù, in particolare quelle su Ignazio di Ricardo García-Villoslada e The First Jesuits di John O’Malley (1993), con la loro immagine “concordista” dell’ordine, delle vicende che portarono alla sua nascita e della sua successiva evoluzione storica, devono essere attentamente rilette alla luce della proposta ermeneutica di Guido Mongini, e così pure tanta altra letteratura relativa a quel fenomeno peculiare di rigoglio religioso che è noto come “Riforma cattolica”, o “Catholic Reformation”, o ancora “Catholic Renewa”l.
Perché il punto è questo: Maschere dell’identità è prima di tutto un attrezzatissimo lavoro di ermeneutica testuale, e in quanto tale costituisce una griglia di interpretazione che chiede di essere testata in ambiti documentari limitrofi, ma non corrispondenti a quelli utilizzati, come le litterae annuae dei collegi, o i lavori di preparazione dell’ordinamento degli studi che fervono già sotto Borgia. La tesi dell’adiaforia gesuitica, ad esempio, ha potenziali ricadute di ampiezza più che notevole, perché mette in discussione alla radice l’idea recepita della rigorosa ortodossia ‘tridentina’ dell’ordine, e cioè il pieno e indiscusso accoglimento dell’apparato dottrinale che si sviluppò a partire dalle conclusioni del Concilio: in questo caso l’azione di Diego Laynez e Alfonso Salmerón a Trento in qualità di agenti del papa, la quale ruppe i delicati equilibri assembleari con una posizione tutta favorevole alle prerogative papali e ostile alle rivendicazioni di autonomia episcopale, potrebbe forse essere letta come fedeltà al principio della natura monocratica della Chiesa, a prescindere dagli specifici contenuti dogmatici elaborati al Concilio? E quindi come leggere, al di là del quarto voto, lo speciale rapporto fra i gesuiti e la Sede romana, che diede ampio ascolto e generosa protezione a una minoranza di perseguitati con la rapida emanazione della bolla di riconoscimento dell’ordine, la Regimini militantis Ecclesiae, e che pure acconsentì a che molti fra gli uomini di punta del ceto dirigente ecclesiastico prendessero gli esercizi dai discepoli di Ignazio? Questi sono soltanto i primi fra i tanti interrogativi che prendono corpo dalla lettura di Maschere dell’identità: e poiché tale è, in fondo, il risultato migliore di un buon libro di storia, non resta che attendere gli esiti che si produrranno dalla sfida – ché tale essa è – lanciata da queste pagine.