Reviewer Matteo Al Kalak - Università di Modena e Reggio Emilia
CitationDopo le grandi celebrazioni degli anni Settanta del Novecento e la lenta ripresa, soprattutto nell’ultimo decennio, dell’edizione nazionale dei carteggi, gli studi su Lodovico Antonio Muratori (1672-1750) sembrano avere risvegliato le attenzioni dei giovani studiosi. Esponente di spicco della repubblica delle lettere, la figura dell’erudito di Vignola pare avere ritrovato una sua collocazione nel panorama della ricerca, sempre più attenta a una personalità che fu snodo e punto di transito di discussioni intellettuali, aspirazioni di riforma e spinte di innovazione.
È questo il caso del recente studio di Manuela Bragagnolo, dedicato, come recita il titolo, al rapporto tra Muratori e l’eredità del Cinquecento. A essere messi in relazione, per il tramite del Vignolese, sono due secoli – il XVI e il XVIII –, considerati alla luce di un progetto unitario: Muratori, questa la tesi dell’autrice, avrebbe promosso un recupero attivo di testi e opere, spesso manoscritti, che la Controriforma occultò o confinò nell’ombra, e tentò di reimmetterli nella discussione culturale.
Il volume, che rappresenta il risultato di indagini apparse in vari articoli e in una corposa tesi di dottorato su Muratori giurista e politico, è ben documentato e presenta tratti interessanti, a partire dalla rivalutazione della dimensione giuridica nella riflessione del Vignolese. Se infatti gli studi muratoriani hanno spesso esaminato tale aspetto relegandolo in un’opera tarda come i Difetti della giurisprudenza (1742), Bragagnolo mostra quanto l’attitudine al ragionamento giuridico accompagni Muratori in tutta la sua esistenza, riemergendo in contesti insospettati. L’animo del giurista affiora così nella difesa di Ludovico Castelvetro, intellettuale e concittadino di Muratori, processato dall’Inquisizione e costretto alla fuga; o ancora nell’apprendistato giovanile presso la Biblioteca Ambrosiana, dove il Vignolese ritrovò l’opera giuridica – manoscritta e cinquecentesca – del vescovo di Capodistria Giovanni Ingegneri († 1600), di cui farà tesoro e trascriverà ampi stralci. Più che costituire un richiamo all’importanza della formazione giuridica in sé, la sottolineatura di Bragagnolo ribadisce la necessità, nell’affrontare Muratori, di tenere conto della complessità del personaggio, non solo per la vastità di orizzonti che lo caratterizzò, ma anche per l’intrecciarsi di più componenti nel suo ragionamento.
Come si diceva, è però sull’eredità cinquecentesca e sullo sforzo di rievocarne alcuni testimoni che l’autrice pone l’accento. A tale riguardo, non vi è dubbio che il volume abbia il suo baricentro nel confronto a distanza tra Muratori e Castelvetro (di cui il Vignolese curò le opere e la biografia) e nel discepolato storiografico di Muratori verso un altro modenese illustre: Carlo Sigonio. Proprio su questo fronte, tuttavia, i quesiti sembrano moltiplicarsi. Rimane ad esempio da capire perché, negli episodi indagati, Muratori scelse il Cinquecento come secolo da ‘recuperare’ (in campo storico la preferenza cadrà, diversamente, sul Medioevo); e soprattutto, è inevitabile chiedersi quale motivo spinse il bibliotecario degli Este a sondare quel Cinquecento, incarnato dall’eretico Castelvetro e dal censurato Sigonio, e non quello di loro più pacati contemporanei che, pur essendo rimasti in secondo piano e degni di essere riportati in luce, non furono oggetto di proibizioni o scomuniche tanto pesanti. Dalla risposta a questi interrogativi dipende la decifrazione di Muratori e del suo posizionamento nel dibattito italiano ed europeo di quei decenni.
A nostro avviso, a monte di quegli orientamenti vi fu la volontà – politica, oltre che culturale – di costruire una tradizione estense di ‘ramo modenese’, che potesse affrancare il Ducato dall’eredità ferrarese, ormai irrimediabilmente perduta. Una tradizione caratterizzata da uno spirito innovatore e anticonformista (antiaristotelico, antipetrarchesco ecc.), di cui Muratori si configurò, con un’autodesignazione non scontata, quale erede e prosecutore. Come nota anche l’autrice, la decisione non fu neutra e venne pagata da Muratori: molti dei suoi avversari, in testa Giusto Fontanini, lo accusarono di eresia adducendo tra le prove anche l’apprezzamento per Castelvetro.
Vi è poi un ulteriore punto su cui pare opportuno soffermarsi in dialogo con l’indagine di Bragagnolo. Scrivendo della Filosofia morale, apparsa nel 1735 e – come lucidamente rilevato – in dialogo con Locke e i grandi cantieri della filosofia europea, la studiosa indica nella prudenza la virtù centrale della proposta muratoriana. A dimostrarlo starebbe l’appendice della Morale, in cui furono pubblicati gli Avvertimenti del vescovo Cesare Speciano (un altro pezzo dell’eredità cinquecentesca). Ci sembra tuttavia che, sebbene alla prudenza venga ancora rivolta una certa attenzione, la scena sia ormai conquistata da un’altra virtù: ad avanzare, nella visione muratoriana, è la giustizia – una virtù in cui, per così dire, si riverberano e si incontrano tanto la sensibilità del giurista quanto quella del riformatore e del pastore di anime. E se la ‘reliquia’ cinquecentesca di Speciano è effettivamente proposta come corredo ideale della Filosofia morale, non è improprio affermare che, in questo caso, l’eredità del XVI secolo consente di misurare più la distanza che l’affinità tra due epoche diverse.