Reviewer Marco Meriggi - Università di Napoli
CitationQuello dei limiti del radicamento del sistema francese nei territori esteri che vennero via via aggregati all’Empire in età napoleonica è un tema classico, sul quale esiste, per ciascuna delle aree dell’Europa interessate, una bibliografia imponente. Essa è venuta, tuttavia, mutando volto e impianto problematico nel corso del tempo. Lo dimostrano, per esempio, gli studi sui dipartimenti italiani condotti in anni recenti da un autore come Michael Broers, che al classico paradigma interpretativo proposto dalla storiografia di orientamento nazionalista, che tendeva a presentare l’imperializzazione di primo Ottocento di quelle aree soprattutto in chiave di pura e semplice occupazione straniera, è venuto sostituendo un modello di lettura più raffinato e duttile, riprendendo alcune suggestioni offerte dalla prospettiva “orientalista” di Edward Said, e presentando quella napoleonica come un’amministrazione fondamentalmente coloniale, basata sul misconoscimento programmatico dell’alterità culturale delle popolazioni locali – specie degli strati subalterni- da parte del funzionariato francese. Già Stuart Woolf, in un contributo apparso qualche anno prima su “Past and Present”, aveva offerto indicazioni pregnanti in questa direzione. Per contro, c’è naturalmente una letteratura, che risale per lo più agli ultimi decenni del Novecento, la quale dell’esperienza imperiale dei territori che non appartenevano alla “antica Francia”, e i cui abitanti non ne condividevano, per lo più, lingua e cultura, sottolinea soprattutto gli aspetti più legati al tema della modernizzazione, ovvero delle trasformazioni che vi si produssero in seguito all’introduzione della legislazione di più o meno diretta matrice rivoluzionaria: per esempio l’abolizione del feudalesimo, i codici egualitari, la centralizzazione amministrativa, la liberalizzazione dell’economia, la fiscalità uniforme, il servizio militare obbligatorio.
L’autore domina pienamente la letteratura che abbiamo evocato e, con il conforto di una vastissima e meritoria indagine archivistica, offre un contributo senz’altro importante al ripensamento di queste problematiche in relazione a un’area specifica della “nuova Francia” imperiale, vale a dire i dipartimenti della Roër, della Ourthe, delle Forêts e della Mosella; territori belgi, lussemburghesi, renani, nei quali si parlavano lingue diverse dal francese e sui quali prima dell’arrivo dell’armata francese si era esercitata la sovranità degli Asburgo oppure della Prussia.
Nell’affrontare il tema, l’autore individua con sicurezza il proprio principale obiettivo polemico, vale a dire le tesi classiche della storiografia tradizionale, di cui evidenzia in modo convincente l’eccessiva propensione a risolvere attraverso la categoria indifferenziata dell’oppressione nazionale il rapporto tra regime francese e popolazioni locali. Ne emerge un quadro ambivalente. A risultare differenziate, infatti, rispetto all’impatto esercitato dalle innovazioni napoleoniche, furono non soltanto le reazioni dei diversi strati sociali, ma anche le posizioni all’interno di ciascuno di essi, a maggior ragione a seconda della congiuntura.
In quella, drammatica, del 1813-1814, una volta che Austria e Prussia – le antiche governanti di quei territori – ebbero sciolto l’alleanza che forzatamente le aveva portate a schierarsi dalla parte dell’Empire negli anni precedenti, e man mano che la sensazione di un imminente crollo del sistema napoleonico si fece più pressante, sostanzialmente tutti i “nuovi” francesi voltarono le spalle a Parigi e fecero terra bruciata attorno agli uomini inviati dalla capitale a governare quelle periferie alloglotte. Ma prima del biennio di transizione verso l’età della restaurazione le cose erano andate diversamente, e tra le componenti del mondo locale c’erano tanto beneficiari quanto vittime dell’appartenenza all’Empire.
A ottenere cospicui vantaggi dal sistema napoleonico erano stati, per esempio, i centri urbani maggiori, che la centralizzazione amministrativa aveva fatto crescere e prosperare. E le città erano il luogo di gravitazione non solo della borghesia, ma anche dei lavoratori di fabbrica, i quali, oltre a fruire dei vantaggi derivanti dallo sviluppo del loro contesto insediativo, godevano in larga parte dell’esenzione dal servizio militare. Quest’ultimo gravava, invece, in misura cospicua sulle spalle dei contadini. E, tuttavia, anche questi ultimi erano parsi man mano assuefarsi a un’innovazione percepita nei primi anni come intollerabile, trasformando, dunque, in routine un’esperienza vissuta inizialmente come vero e proprio trauma. Per altri versi, la certezza del diritto garantita dalla nuova legislazione aveva offerto, per molti anni, uno scenario positivo e apprezzato, se comparato a quello, dominato dall’arbitrio, caratteristico della giustizia di antico regime. Ma lo stato d’eccezione del 1813-1814, contraddistinto da un’enorme dilatazione del potere militare rispetto a quello civile, rese di fatto aleatorio il principio di legalità che la nuova amministrazione portava a proprio vanto e ripropose la dimensione dell’abuso con una brutalità dai tratti devastanti. Ambivalenti, infine, furono anche gli esiti della liberalizzazione dell’economia, perché, positivi per l’industria, essi si rivelarono invece assai dannosi nelle campagne.
Come che sia – seppure non certo nei termini di quella piena sintonia che la comune frequentazione delle logge massoniche e di un tessuto associativo i cui componenti locali parlavano per lo più la lingua di Parigi aveva indotto gli “antichi” francesi giunti a governare quei dipartimenti a considerare non solo auspicabile, ma anche a effettiva portata di mano – una opinione pubblica colta intimamente persuasa della bontà di alcune delle realizzazioni napoleoniche prese forma in quegli anni anche tra il Reno e la Mosa. Così che ancora nel 1814, a dispetto dell’innegabile deterioramento della propria immagine patito dal regime, poteva accadere di sentir risuonare per le strade di Colonia il motto: “meglio francese che prussiano”.