Reviewer Edoardo Tortarolo - Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro"
CitationSono pochi gli storici in attività sia in Italia sia in Germania (o altrove) che abbiano elaborato una conoscenza della storia e della storiografia tedesca e italiana così completa e approfondita come Christof Dipper. Nel corso della sua carriera Dipper ha studiato, tra l’altro, il Settecento italiano, la storia agraria tedesca, e le dittature novecentesche, e ha analizzato la formazione della modernità europea come modo di interpretare la genesi della nuova civiltà contemporanea. All’Italia si è costantemente interessato, da storico professionale impegnato nella ricerca, tra l’altro come presidente della Arbeitsgemeinschaft für die Neueste Geschichte Italiens, e da studioso delle istituzioni pubbliche con una particolare affezione per l’Italia. Il suo intervento sullo stato della contemporaneistica italiana, scritto a partire dalla sua esperienza in quanto commissario ‘straniero’ per l’ASN 2013, ha suscitato poche e imbarazzate reazioni. Non si può non ricordare che questo suo articolato quadro della cultura storica accademica della Penisola riflette le aspettative tedesche verso un paese da cui si attende molto, forse troppo, e a cui ci si si ritrova legati senza una via d’uscita indolore[1]. Insomma “vicini lontani”, come dice il titolo (che tradotto letteralmente in italiano suggerire un gioco di parole assente nell’originale “ferne Nachbarn”), gli uni scomodi agli altri, in un rapporto in cui ciascuno vorrebbe il bene dell’altro, per quanto ingombrante e imbarazzante, sa (o si illude) di poterglielo insegnare e soffre perché il consiglio, la predica, il rimprovero, l’esortazione restano inascoltati e inefficaci.
Non una monografia organica, che sarebbe di difficile concezione e realizzazione, ma una raccolta di saggi scritti originariamente dopo il 2000 (con un’unica eccezione per il primo saggio sul giacobinismo tedesco e italiano pubblicato nel 1979), il volume dimostra una notevole coerenza interna. Si tratta, come dice il sottotitolo ed è argomentato nell’introduzione (pp. 9-26), di studi comparativi, essenzialmente intorno alla questione della modernità (l’eccezione mi pare sia il saggio su tedeschi e italiani dal 1943 al 1950, pp. 243-263 che analizza i rapporti di scambio industriali e commerciali, su cui qualche parola più avanti). Italia e Germania offrono percorsi di transizione alla modernità diversi, costellati, tuttavia, da punti di contatto che l’interesse reciproco (e soprattutto quello tedesco per l’Italia) hanno creato sul piano culturale. “La lunga tradizione della comparatistica italo-tedesca finisce per scoprire parallelismi affrettati, soprattutto nella storia degli avvenimenti politici. Per evitare questo pericolo, si mette in campo qui un quadro di riferimento che sfida ad affrontare la comparazione, senza per questo costringerla nel letto di Procuste dell’immagine storica tradizionale. Questo quadro di riferimento è la storia della modernità (Moderne)” (p. 60). La definizione della categoria centrale scelta da Dipper per organizzare la comparazione tra Italia e Germania è naturalmente difficile (“La categoria della Moderne rischia sempre di essere usata enfaticamente”, si dice giustamente a p. 168). Singola o multipla, la modernità può essere indicata come un percorso e come un insieme di valori la cui realizzazione comporta l’uscita dalla premodernità. In quanto percorso storico, Dipper ne individua le tappe “nell’Illuminismo, nella rivoluzione, nella fondazione dello Stato nazionale, nei rivolgimenti intorno al 1900, nella dittatura, nel miracolo economico e subito dopo nella crisi della modernità industriale” (p. 326). La modernità può altrettanto legittimamente essere considerata un’epoca “nella quale la visione di uguaglianza, unitarietà e universalizzazione è o è stata determinante” (p. 154). La tensione tra questi due aspetti, realista e normativo, si rileva forte, talvolta intollerabile, quando Dipper affronta l’analisi di come in Germania e in Italia aspetti rilevanti del processo di trasformazione sono stati organizzati, dal liberalismo aristocratico nell’Ottocento (pp. 59-86) alle forme di industrializzazione alla gestione della politica della scienza negli anni Trenta (pp. 203-242) sino al tema classico e sempre delicato della modernità di fascismo e nazismo (pp. 167-201), che apre la questione se sia possibile la modernizzazione come percorso senza la modernità in quanto affermazione dei tre valori fondamentali che ne costituiscono la novità. Le vicende italiane e tedesche inducono a pensare che sia stato così. La modernità è (stata) profondamente ambivalente, come dimostrano le analisi empirico-comparative presentate da Dipper. Perché è certamente vero che ancora molto resta da fare nel campo degli studi empirici che siano utilizzabili, ma – credo a ragione – Dipper può concludere che le differenze prevalgono sulle somiglianze (p. 327). Se l’industrializzazione italiana è stata “mediterranea”, se il fascismo ha avuto nel dopoguerra effetti contrari a quelli del nazismo, se “la giuridificazione ebbe luogo in entrambi i paesi, ma significò ogni volta qualcosa di molto specifico” (p. 148), e così via, il riferimento privilegiato alla modernità come asse della comparazione diventa problematico, più un’occasione per tematizzare campi di ricerca che un argomento esplicativo da verificare con l’indagine puntuale.
La comparazione delle diverse forme di modernizzazione non esaurisce, tuttavia, la visione proposta da Dipper. Meno evidente è l’altra, e almeno altrettanto importante, faccia della vicenda parallela di Italia e Germania, perché si potrebbe scrivere una storia delle zone di contatto (e naturalmente, spesso, di totale incomprensione reciproca) tra le due culture basata sulla diversità radicale e sull’attrazione generata dalla diversità. Come in un sottotesto, Dipper affronta anche questo tema, a sprazzi in gran parte dei saggi e sistematicamente nel contributo del 2007 dal titolo elegante e ironico Inopinatamente in terra nemica (pp. 243-263) sui rapporti tra i due paesi dal 1943 al 1950. Si può aggiungere a quanto scritto da Dipper che, in proporzioni senza precedenti, gli internati militari italiani in Germania, gli IMI, e le decine e decine di migliaia di soldati tedeschi detenuti nei campi di Bellaria Igea Marina[2] divennero involontari protagonisti di questo processo di continuo avvicinamento e straniamento, accanto agli imprenditori, studiosi e politici che videro subito le opportunità e le necessità della ricostruzione e contribuirono alla stagione più recente dei rapporti di scambio ineguale (e di difficile comprensione reciproca) del secondo dopoguerra.
Tradurre in italiano questo volume sarebbe opportuno e meritorio per far conoscere un filone attivo e originale di ricerca al grande pubblico e dimostrare che le ragioni della vicinanza (e in questo caso certamente della competenza specifica) prevalgono su quelle della relativa lontananza culturale. È vero che non necessariamente ci si deve capire per provare interesse e attrazione. Dipper dimostra che, per nostra fortuna, anche il contrario può verificarsi.
1. C. Dipper, Die italienische Zeitgeschichtsforschung. Eine Momentaufnahme, in “Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte“, 63, 2015, 3, pp. 351-378. Tradotto ora come La storia contemporanea in Italia vista dalla Germania. Un’istantanea, seguito dalle osservazioni (e controdeduzioni) di Paolo Macry, Fulvio Cammarano, Vinzia Fiorino, Antonio Bonatesta, Andrea Claudi, Discutendo con Christof Dipper, in “Italia contemporanea”, 283, 2017, pp. 243-280. ↑
2. A. Agnoletti, Enklave Rimini-Bellaria. Storia e storie di 150.000 prigionieri nei campi di concentramento alleati sulla costa romagnola (1945-1947), Modena, Guaraldi, 1999. ↑