Reviewer Massimo Rospocher - FBK-ISIG
CitationRoma, 12 settembre 1513: il papa «terribile», Giulio II, è morto da più di sei mesi, ma per otto giorni di seguito il popolo romano si accalca per entrare nella chiesa di Santa Maria del Popolo e ammirare il ritratto del pontefice Della Rovere dipinto da Raffaello. «Tutta Roma voleva vederlo», scrissero i cronisti contemporanei. Un tributo certo alla fama del maestro urbinate, ma soprattutto alla gloria terrena del suo committente. Quello del ritratto di Giulio II rappresenta uno dei casi più eclatanti della dimensione pubblica e del ruolo politico dell’arte nel Rinascimento.
Lo Städel Museum di Francoforte ha recentemente acquisito (2010) una copia della tavola di Raffaello e in occasione del restauro e della presentazione pubblica ha allestito una mostra che ha riunito tre delle quattro versioni note di uno dei più celebri ritratti dell’arte rinascimentale. La nuova acquisizione dello Städel è stata così esposta a fianco della copia dipinta da Tiziano nel 1545, conservata a Palazzo Pitti, e a quella di bottega, a lungo ritenuta l’originale, proveniente dalla Galleria degli Uffizi. Unico assente, purtroppo, proprio lo splendido ritratto di Giulio II della National Gallery di Londra, ad oggi unanimemente riconosciuto come l’originale dipinto dalla mano di Raffaello. Una mancanza, ovviamente, non di poco conto. Tuttavia, il bel catalogo dell’esposizione – curato da Jochen Sander e dotato di uno splendido apparato illustrativo – offre comunque l’occasione per una riflessione sulla genesi incerta di quest’opera, sul significato, sull’attribuzione, sulle ragioni dell’esistenza delle sue numerose copie, ma anche, più in generale, sulla funzione dell’arte come strumento di azione e comunicazione politica per il papato del Rinascimento.
I sei contributi contenuti nel volume consentono di collocare l’opera all’interno del suo contesto politico-religioso e in quello artistico. Il saggio di Bernward Schmidt ribadisce il ruolo secolare e spirituale di sovrano pontefice ricoperto da Giulio II, accennando alla sua formidabile attitudine alla auto-celebrazione nella pittura, nella scultura e nell’architettura. Sul rapporto tra l’artista e il mecenate si concentra invece il saggio di Michael Rohlmann, che mette in luce il ruolo attivo recitato dal papa nelle sue committenze artistiche, sottolineando come egli avesse partecipato in prima persona alla scelta dei soggetti per la decorazione delle Stanze Vaticane, affrescate in quegli stessi anni proprio da Raffaello (e in cui Giulio appare in due cripto-ritratti). Con il ritratto di Giulio II, come ci ricorda qui Jörg Böllling, Raffaello stabilì una tradizione pittorica nella ritrattistica pontificia. Le vesti liturgiche, la raffigurazione di tre-quarti seduto sulla sedia camerale e il contesto cerimoniale di un’udienza privata, costituiranno un canone rappresentativo valido sino ai giorni nostri (basti pensare al Leone X di Raffaello, al Clemente VII di Sebastiano del Piombo, al Sisto IV di Tiziano, per citare alcuni tra i più noti), almeno fino al pontificato di Benedetto XVI. Dopo avere riassunto la vicenda delle attribuzioni delle copie esistenti, Jürg Meyer zur Capellen sostiene la tesi di un coinvolgimento diretto di Raffaello nell’esemplare dello Städel, che sarebbe stato realizzato poco tempo dopo l’originale per soddisfare la grande richiesta di copie che l’immagine di Giulio avrebbe suscitato. Una tesi ribadita da Jochen Sander, nonostante alcuni errori e contraddizioni nella ricostruzione del quadro storico (come, ad esempio, le contrastanti versioni nella datazione della barba del papa; oppure la confusione della «Lega di Cambrai» con la «Lega Santa»). Sulla base di un’attenta analisi dei ‘pentimenti’ dell’artista, il curatore argomenta come la versione di Francoforte avrebbe costituito un «piano alternativo» per la realizzazione del dipinto rispetto all’originale londinese. Sarebbe questo, secondo Sander, il modello a cui avrebbe fatto riferimento Tiziano nella sua versione del 1544. Infine, la ricostruzione delle varie fasi del restauro nel saggio di Stephan Knobloch mostra come le analisi chimiche e tecnologiche rappresentino ormai un elemento imprescindibile non solo nella conservazione, ma anche nello studio delle opere d’arte. Esse ci consentono non solo attribuzioni più certe, ma anche di ricostruire il contesto storico-culturale in cui furono prodotte.
Considerata la funzione politica attribuita all’arte dai papi del Rinascimento, e da Giulio II in particolare, vi sono una serie di questioni legate al ritratto che avrebbero potuto essere affrontate e le cui risposte potrebbero aiutare nella definizione del significato e della precisa datazione del dipinto: quale è il messaggio inviato ai posteri e ai contemporanei da quest’opera? Quali sono le intenzioni del suo committente? Perché un papa passato alla storia per la sua indole «guerriera» e per l’impulsività e terribilità della sua natura decide di farsi immortalare da Raffaello con un’aria così pensosa e riflessiva, quasi remissiva? Non è certo la raffigurazione di un uomo sconfitto, come erroneamente argomen- tato da taluni, ma non è nemmeno il Giulio conquistatore, icona della Ecclesia Triumphans sul piano secolare. I motivi di una tale rappresentazione conciliante sono forse da ricercare nel preciso momento storico in cui Raffaello realizzò il dipinto: impegnato in una guerra spirituale contro il concilio scismatico di Pisa, l’immagine pubblica con cui il papa si mostra ai contemporanei è quella di un pacificatore e di un difensore dell’unità della Chiesa. Tra le «due anime» del pontefice, è quella spirituale che Raffaello e il suo mecenate consegnarono alla posterità.