Reviewer Marco Bellabarba - Università di Trento
CitationGli studi sulla faida e più in generale sul fenomeno della violenza aristocratica appartengono, com’è noto, a una consolidata tradizione della storiografica tedesca. Il tema, dopo le classiche ricerche di Otto Brunner e le revisioni proposte da Gadi Algazi non ha mai smesso di calamitare l’attenzione degli studiosi e di costituire un punto di vista privilegiato per leggere le trasformazioni dell’«altes Reich» durante la prima età moderna. L’Habilitationsschrift di Christian Wieland s’inserisce in questo filone di ricerche spostando tuttavia il fuoco della sua analisi sulle interazioni tra aristocrazia e sistema giuridico, tra l’élite politica del ducato bavarese e le sue corti di giustizia, uno dei luoghi istituzionali tradizionalmente ritenuti meno frequentati dal ceto aristocratico.
Il punto di partenza di Wieland consiste nel valutare la nobiltà del territorio dei duchi di Wittelsbach non tanto, o non solo, un insieme di «fatti oggettivi», delimitata da parametri giuridici ed economici, in grado di proteggere il suo status di corpo privilegiato; essa appare, piuttosto, una «Glaubensgemeinschaft» (p. 13), una ‘comunità di fede’ e di habitus pratici impegnata a costruire per sé un insieme di strategie legittimanti sensibili al trascorrere del tempo. Da questa concezione ‘relazionale’ del ceto aristocratico provengono alcune delle piste di ricerca affrontate nel libro: l’identificazione di una possibile ‘crisi’ nobiliare tra XVI e XVII secolo; il confronto con i temi della corte e della «Zivilisationstheorie» di Norbert Elias; il tentativo d’incrociare la vecchia tradizione della storia del diritto tedesca con i cantieri più recenti della «neue Verfassungsgeschichte» e della storia sociale del crimine.
Per certi versi il quesito delineato nell’Introduzione, «Was bedeutet das VorGericht-Sein für den Adel der Frühen Neuzeit?» costituisce lo sfondo di tutte le altre questioni che affiorano nei capitoli successivi. Entrare in un’aula di giustizia e sottoporsi a processo significa per un nobile bavarese anzitutto l’incontro con un apparato di uffici irrobustitosi dopo la guerra di Successione del 1504-1505, che ha amalgamato i territori appartenenti ai rami della dinastia: come mostrato nei primi due capitoli, sia all’interno del ducato bavarese (nell’Hofgericht di Landshut, non lontano da Monaco), sia all’esterno dei suoi confini dopo l’istituzione del Reichskammergericht (Tribunale camerale aulico a Spira) e del Reichshofrat (il Consiglio imperiale aulico, attivo presso la corte dell’imperatore a Vienna), la struttura giudiziaria offre adesso un ventaglio di opzioni impensabili nel tardo medioevo. In secondo luogo, la conseguenza diretta di questo accrescimento, è un ricorso alla macchina giudiziaria che acquista un ritmo sempre più serrato.
Contro le consuete letture ‘oppositive’ del rapporto tra procedure di diritto romano-canonico e consuetudini germaniche, Wieland dimostra il rapido adattamento della comunità aristocratica bavarese alla recezione nelle terre imperiali del diritto comune. I numeri dei fascicoli conservati negli archivi dei tre tribunali supremi, ci danno una fisionomia degli attori processuali in cui si riconosce facilmente il profilo dei maggiori lignaggi bavaresi. Dopo un avvio esitante agli inizi del secolo, il numero delle cause mosse da aristocratici (o in cui essi sono presenti nel ruolo di imputati), supera largamente la metà dei contenziosi totali e continua a rafforzarsi dopo gli anni Quaranta. Inoltre, la crescita di nobili addottorati presenti nell’organico giudiziario dopo aver compiuto il loro tirocinio di studio nelle facoltà italiane, rende ancora più evidente l’assorbimento del nuovo linguaggio giuridico nella comunità aristocratica. Non esistono clausole discriminanti che vietino alle famiglie poste nella fascia cetuale più bassa, piccoli nobili e cavalieri liberi, borghesi, contadini, l’ingresso ai tribunali ducali o imperiali; d’altro canto poiché non tutte le persone dispongono delle risorse economiche bastanti ad avviare una causa, le possibilità di ‘usare’ la giustizia – osserva l’autore – «nicht grundsätzlich, nicht prinzipiell, wohl aber quantitativ» (p. 497) si riducono a un fenomeno che interessa principalmente i ceti superiori.
I dieci casi processuali sottoposti a un’attenta thick description microanalitica nella parte centrale del libro offrono un’immagine concreta della litigiosità aristocratica e degli strumenti con cui si cercò di arginarla. I motivi coprono tutta la gamma dei conflitti che si ritrovano comunemente negli archivi dei grandi tribunali europei: liti di confine con le comunità rurali, cause ereditarie all’interno di una famiglia, conflitti tra signori rurali e principi. Nella contabilità ordinaria di queste cause le assenze sono altrettanto significative delle presenze. Ad esempio, i processi che vedono uno di fronte all’altro i duchi di Wittelsbach e i nobili maggiori del ducato, solo di rado arrivano a un grado formale di giudizio, preferendo trasformarsi in dibattiti tenuti presso le diete; al contrario, sono i nobili minori, appartenenti al ceto dei cavalieri ‘liberi’, che spostano le cause di sovranità verso le corti di Vienna o Spira alla ricerca di una protezione legale avvertita meno sicura nei tribunali bavaresi.
Quelle che Wieland chiama (nell’ultimo capitolo) le «sfere di azione nobiliari» di fronte ai tribunali non battono quindi sempre le stesse strade: dentro i processi s’incrociano storie familiari e logiche istituzionali più ampie, vicende minute e grandi avvenimenti, che provocano esiti mai del tutto prevedibili in partenza. Addentrandosi nelle decine di eventi ‘raccontati’ – perciò rivisti e trasformati – dal linguaggio della giustizia pubblica, egli riesce a trovare una risposta agli interrogativi tracciati all’inizio del libro. La vecchia ipotesi di un’aristocrazia in declino a causa dell’ascesa dei poteri statali si rivela alla fine del tutto poco credibile, se messa a confronto con la presenza pervasiva dei nobili nelle magistrature e con il veloce ‘ri-orientamento’ del loro tirocinio formativo verso la cultura giuridica. Questi processi di trasformazione, che paiono spostare la teoria della civilizzazione di Elias dalla corte del principe alle corti di giustizia, conservano agli occhi dell’aristocrazia bavarese i margini di ambiguità necessari per sentirsi diversi dalla gente comune; ma per quanto l’«Anderssein» nobiliare e la sua superiorità sia un argomento costante nelle memorie processuali, il contesto istituzionale nel quale è pronunciato in realtà lo indebolisce e finisce per renderlo, poco alla volta, un po’ meno diverso.