Reviewer Émilie Delivré
Citation«‘Padroni’ della lingua francese», e «‘armati’ con la lingua russa»: è così che i westfaliani hanno affrontato il periodo del regno di Westfalia, il nuovo Stato napoleonico che, guidato da Jérôme, fratello dell’imperatore, ebbe un’effimera vita fra il 1807 e il 1813.
È proprio questo atteggiamento della popolazione, e più in generale la situazione linguistica del regno, che Claudie Paye, ricercatrice del Deutsche Historische Institut di Parigi, analizza con entusiasmo in uno studio dettagliato ma mai tedioso di quasi 600 pagine (altre sezioni del lavoro sono state pubblicate in open access).
Il regno di Westfalia (molto più esteso della Westfalia attuale, soprattutto nella sua parte orientale) fu pensato da Napoleone come uno Stato modello, con Kassel come capitale. Dalla sua creazione fu introdotta una burocrazia bilingue, sostenuta da una migrazione francofona e fu proprio nella questione della lingua che le diverse problematiche e le resistenze legate alla presenza straniera si manifestarono con particolare chiarezza. Ovviamente, la questione della lingua non sbarcò in Germania con i francesi, ma era collegata al più ampio fenomeno della nascita del nazionalismo, alla concezione della lingua come entità radicata in un’unica nazione, con la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni; anche nuove espressioni del tipo «servo dei francesi» o «tedesco forzato» con cui si indicava chi parlava la lingua dell’altro sono esempi della stereotipizzazione dei rapporti tra le due lingue.
L’autrice parte chiedendosi perché in certi momenti la problematica linguistica fosse considerata essenziale, mentre in altri venisse semplicemente ignorata dai contemporanei, come se una comprensione fra cittadini o fra amministrazione e amministrati fosse indipendente dalla lingua. La sua ipotesi di lavoro è che le questioni linguistiche furono utilizzate intenzionalmente, e sono proprio queste diverse intenzioni che Paye cerca di ricostruire. Nell’introduzione, Paye offre un approfondito esame dello status questionis sulla formazione della nazione, nelle sue caratteristiche socio-linguistiche e storico-linguistiche, collocando la sua analisi nei recenti dibattiti della Rheinbundforschung, nella storia della comunicazione e dei media, nonché nella prospettiva del Kulturtransfer.
In una prima parte, Paye studia nel dettaglio quella che definisce la «politica della lingua»: la riorganizzazione della comunicazione legata alla compresenza di tedeschi e francesi. Per farlo, utilizza soprattutto fonti della polizia: una vera sfida per recuperare documenti che dopo la dissoluzione del regno erano stati dispersi in Germania, in Francia, ma anche in Russia. Dopo aver mostrato come il francese fosse stato riservato all’amministrazione alta e il tedesco a quella bassa, la studiosa si chiede se il francese fosse considerato una lingua dell’élite e del potere. Fra lingua del potere e potere della lingua, la distanza non è molta. Paye mostra come in materia di politica della lingua il governo, sapendo bene quanto l’argomento fosse delicato, si mantenne sempre su posizioni piuttosto prudenti: il francese non fu mai imposto alla popolazione, i giornali ufficiali vennero pubblicati in due lingue. Ciononostante, era difficile non riconoscere l’esistenza di una gerarchia tra esse. Nel diritto, come venne ricordato a un giudice di pace, faceva fede il testo francese: la versione in tedesco esisteva solo come traduzione di servizio per il pubblico, ma non aveva nessun valore legale. Nel sistema educativo il francese fu meno invadente, anche se il suo insegnamento fu comunque intensificato. In ogni caso, osserva Paye, in nessun momento si può davvero parlare di egemonia linguistica.
In una seconda parte, dedicata alle «Pratiche della lingua e della comunicazione», l’autrice analizza diverse situazioni di conflitto, proteste, questioni sorte riguardo all’insegnamento della lingua, traduzioni ufficiali e no, il passaparola (quest’ultimo aspetto è ampiamente sviluppato in un capitolo online). In parti- colare, si concentra sui meccanismi che creano nuove dinamiche comunicative e descrive come vennero innalzate e superate le barriere linguistiche e come nella comunicazione furono incorporati nuovi spazi e nuovi pubblici. Attraverso un’indagine microstorica presenta quindi i percorsi di alcuni traduttori (come lo strano, appassionante caso di Samson Cerfberr), spesso rimasti nell’anonimato, con il loro ruolo di secondo piano e le loro traduzioni a volte approssimative. Con la stessa attenzione affronta le pratiche dell’insegnamento della lingua francese, analizzando i manuali scolastici e studiando i bassi salari dei professori. Ampio spazio è dedicato al passaggio dal francese al russo come lingua di insegnamento, proprio mentre nel 1813 i cosacchi si avvicinavano per liberare i westfaliani. Molto interessante la parte che ricostruisce la creazione di nuovi generi letterari, o l’adattamento di generi già esistenti, politicizzati per l’occasione, in modo da evitare la censura: sarebbe stato interessante, in questo contesto, un riferimento ai lavori di James Brophy, essenziali per capire la cultura politica popolare della Germania del primo Ottocento. Paye studia anche la lingua utilizzata nelle petizioni, mostrando come i westfaliani non avessero paura di usare il francese quando si trattava di chiedere la grazia e siano riusciti a creare una vera Sprachpolitik «dal basso». Nella sua analisi, non si sofferma però soltanto sul testo scritto: anche immagini, caricature, oggetti quotidiani, proteste e charivari (si veda l’affaire Taberger o le reazioni al nuovo stemma, «questo tremendo serraglio») vengono presi in considerazione come mezzi di comunicazione al di là della lingua, che si politicizzò sempre più violentemente fino al 1813.
Nella terza parte, Paye studia le riflessioni sulla lingua da parte dei contemporanei, che documentano un diverso livello di coscienza della lingua e che emergono ad esempio nelle memorie della restaurazione: tutte queste memorie descrivono soprattutto le tensioni che potevano sorgere fra lingua e cultura (concepita nell’accezione ampia di Clifford Geertz, cioè come un intreccio creato dagli uomini stessi) e documentano i mezzi con cui i contemporanei hanno cercato di gestire la loro comunicazione attraverso la lingua e le lingue (scritte e parlate). Paye indaga quindi le pratiche sociali legate alle lingue, con un’analisi storica del discorso su «che cosa si poteva dire, come, e con quale significato», ispirandosi ai lavori di Achim Landwehr, di cui avrebbe potuto utilizzare anche alcuni studi sulla concezione del tempo nella storia, e più generalmente sulla Zukunftsforschung: la politica della lingua era infatti una politica mirata alla strutturazione futura di uno Stato «senza passato» (perché, come scrive giustamente, «was 1807 in Sachen Sprachpolitik unternommen wurde, weist auf die Zukunft hin, die der Obrigkeit des ‘Staates ohne Vergangenheit’ für ihr Land vorschwebte»). Interessanti sono anche le questioni legate alla traduzione del Codice civile; a tal proposito, poteva essere utile un confronto con le traduzioni del catechismo napoleonico nel regno: già nel 1807 infatti in alcuni periodici venivano catalogate e comparate diverse traduzioni, soprattutto dei suoi passaggi più polemici (ad esempio, quello in cui veniva richiesto di pregare per Napoleone e la sua dinastia). L’autrice poi si focalizza su altre questioni di coscienza linguistica, che riguardano le difficoltà nell’apprendimento di una lingua straniera e la timidezza nel parlarla. Pone quindi la questione del dominio del francese sul tedesco attraverso lo studio di conflitti aperti intorno alla lingua. Secondo l’autrice, non si può parlare di una lingua «octroyée», anche se alcuni fonti sfruttano intenzionalmente la polemica per motivi politici. Certo si trattò di una situazione di latente dominanza della lingua, che portò a volte a conflitti nell’amministrazione e a corte (cambio dei nomi delle strade, presenza di libri in tedesco o francese nelle biblioteche), ma sono pochi i casi documentati di vera «violenza» linguistica e fisica. In alcuni casi, questa situazione ha anche portato a fare del tedesco una «Gegensprache», una «controlingua» per la comunicazione sovversiva – ad esempio a teatro, dove questioni di gusto si mescolarono con l’avversione verso il francese e i francesi. Alla fine di questa terza parte l’autrice si sofferma sulla questione nazionalista, e sui difensori, come Ernst Moritz Arndt, di un tedesco vivo e parlato, in contrapposizione al francese morto e scritto (stranamente però, a questo proposito, non fa nessun riferimento a J. Gottlieb Fichte).
Si intravede quindi bene come Paye abbia cercato di leggere «fra le righe» del regno di Westfalia. Il suo volume coglie molti diversi livelli di comunicazione, e ci permette di pensare alla lingua come a un possibile luogo di delimitazione sociale, culturale e politica, ma anche più generalmente di politicizzazione fondamentale. Questo è stato possibile attraverso uno studio estremamente dettagliato dei contesti che è riuscito a fare emergere le posizioni soggettive e parziali, le intenzioni nascoste o palesi. L’autrice ha saputo ricostruire con entusiasmo una comunicazione vivace che si muoveva con i soldati, i traduttori, i venditori ambulanti, i postini (un capitolo online è dedicato alle lettere) e le metafore che usavano, in uno Stato satellite di Napoleone dalla vita effimera. Probabilmente a permettere il successo di tale impresa è stata la simpatia dell’autrice per una popolazione westfaliana che si adattò con intelligenza ai grandi cambiamenti che la videro coinvolta, ma seppe anche insistere con decisione per sviluppare le sue proprie pratiche e creare una «politica linguistica dal basso».