Reviewer Paolo Pombeni - già Università di Bologna
CitationÈ a suo modo uno strano libro questa biografia di Max Weber. Opera di uno studioso del pensiero sociologico che ha al suo attivo molti studi non solo sull’oggetto di quest’ultimo lavoro, ma su tutta la storia della sociologia, impressiona per la quantità enorme di dettagli che ha raccolto e ordinato in un cospicuo numero di pagine. La domanda se questa marea di dettagli, in cui non di rado si rischia di perdersi, ci consenta di fare dei passi avanti nella comprensione del pensiero di questo mostro sacro del pensiero occidentale suona impertinente. Le biografie in fondo hanno tutte l’ambizione di restituire un ritratto «a tutto tondo» di un personaggio, inserendolo nel contesto del suo tempo. Da questo punto di vista il lavoro di Kaesler raggiunge il suo scopo, grazie anche alla ampia disponibilità di fonti e di memorie collegate, tutte adeguatamente sfruttate.
Se tutti i dettagli ricostruiti siano essenziali per capire il pensiero di Weber è un’altra questione. Si pensi che le prime 150 pagine sono interamente dedicate a descrivere la «stirpe» da cui esce Weber (sia per parte paterna che materna) e le città in cui si forma. È vero che fu egli stesso a giustificare il suo carattere «borghese» (e cosmopolita fino ad un certo punto) con il rinvio a questo retroterra, ma forse non era strettamente necessario prenderlo così in parola. Altro ampio passaggio, anche qui un centinaio di pagine, è dedicato al padre Max Weber senior, alla sua attività amministrativa e politica (sappiamo anche quanto guadagnava di salario), nonché al percorso formativo del figlio dalle scuole elementari, all’università (incluso il suo rapporto con la goliardia), al servizio militare. Non sono notizie tutte inedite, perché la vicenda biografica dell’autore di Economia e società è già stata ampiamente scavata, ma certo Kaesler ha organicamente raccolto quasi tutto quel che è uscito al proposito e lo ha ordinato e anche ampiamente integrato. Così è per il rapporto con la famiglia dello zio, lo storico Herman Baumgarten, di sua moglie Ida (sorella della madre di Weber), di suo figlio Otto (teologo), personaggi che indubbiamente ebbero influenza su aspetti diversi del pensiero weberiano. Per esempio si ripropone la tesi che il famoso giudizio sul «destino da epigoni» della sua generazione derivi dal confronto colle torsioni del liberalismo tedesco che coinvolgevano il padre (sul fronte conservatore) e lo zio (sul fronte più progressista).
Qui nasce già un piccolo problema: Kaesler fa risalire ad un articolo di Baumgarten la testi della politica come «Beruf» (p. 239). Come accadrà anche in altri casi, si tratta di echi che sono sempre difficili da accertare, non fosse altro perché questo articolo è di parecchi decenni anteriore alla famosa conferenza. Non è raro trovare in Weber formule che sembrano riflettere altre rinvenibili in altri autori. Non per vanagloria, ma chi scrive, aveva trovato anni fa che la formula che distingueva fra vivere «di» politica e vivere «per» la politica, che Weber proporrà nella famosa conferenza del 1919 «Politik als Beruf», è presente tale e quale nell’American Commonwealth di James Bryce, un libro che Weber aveva letto ed amava e la cui lettura cercava di imporre a Robert Michels. Se però abbia veramente attinto lì, o siano coincidenze è difficile stabilire (per inciso: questo rapporto sulla interpretazione weberiana dell’America è sconosciuto a Kaesler, sicché Bryce non compare neppure nell’indice dei nomi: eppure sono notizie che si trovano nelle lettere pubblicate nella Max Weber-Gesamtausgabe).
Più interessanti sono, a mio giudizio, le pagine in cui si ricostruisce il rapporto, piuttosto forte, con la storiografia della fase formativa di Weber, da Otto Gierke a Theodor Mommnsen (sua sorella Klara ne sposerà il figlio), a von Treitschke e naturalmente a Herman Baumgarten. Weber sarà sempre uno studioso di storia, anche se un po’ diversa da quella che diviene imperante con la svolta di Leopold von Ranke.
A questo punto comincia però il secondo filone della ricostruzione biografica di Kaesler, cioè il rapporto di Weber con il genere femminile. La faccenda è complicata: c’è l’onnipresente ruolo della madre Helene (storia assai nota) e l’influenza sua come fonte dell’atteggiamento verso la questione religiosa (protestante); c’è la zia Ida e sua figlia Emy, che fu il primo amore del Nostro e che con la rottura del loro rapporto provocò scompensi, ed infine entra in scena Marianne Schnitzer che riuscirà a sposarlo (il suo ritratto è alle pp. 317-333). Il rapporto fra Max e Marianne occupa larga parte di questa biografia, perché Kaesler, che sembra un tantino ossessionato dal versante della vita sessuale del suo biografato, ci torna più volte (ad iniziare dalla questione, irrisolta, sul perché non hanno avuto figli: si vedano le pp. 364-396).
Ovviamente va ricordato che la biografia di Max scritta molto presto dalla moglie è presa qui in grande considerazione: al contrario di tutto un filone interpretativo che tendeva a svalutarla come opera comprensibilmente celebrativa e di conseguenza reticente, Kaesler, che la cita ampiamente, ne dimostra con un ampio e davvero pregevole ricorso ad una molteplicità di fonti parallele l’interesse e la sostanziale correttezza per quanto viene riportato.
Le pagine dedicate agli avvii della sua carriera di studioso e il parallelo impegno con le organizzazioni del protestantesimo sociale e con il «Verein für Sozialpolitik» danno un quadro ricco di dettagli di quanto più o meno era già noto.
Più interessante la ricostruzione della sua prima chiamata come professore a Friburgo e soprattutto la accurata documentazione del successo della sua «Antrittsvorlesung» (pp. 387-410). Altrettanto ricche sono le pagine (420-444) che riguardano la prima fase del suo rapporto con Friedrich Naumann: nonostante Weber ricordi all’amico che lui non era veramente «christlich sozial», ma invece «ein ziemlich reiner Bourgeois» (p. 433) si tratta di una collaborazione duratura che ha un suo significato nell’evoluzione dell’atteggiamento politico del Nostro (Wolfgang Mommnsen nel suo famoso libro su Weber e la politica tedesca mi pare meno puntuale su questo aspetto).
È in questa fase che arriva Else von Richthofen che si addottora con Max, che diviene amica di Marianne, che poi sposa Edgard Jaffé e le cui gesta amorose diventeranno un altro tema di questa biografia.
Intanto arriva però «la frattura», la ben nota fase della malattia nervosa che dal 1896 al 1899 segna pesantemente la vita di Weber. Certo questa fase comincia con un evento positivo: egli è chiamato nel dicembre 1896 sulla cattedra ad Heidelberg dove c’è un ricco circolo intellettuale (ricordiamo da subito Georg Jellinek e Ernst Troeltsch, ma andrà sempre più allargandosi), ma nel giugno successivo litiga col padre in difesa della madre. Il padre morirà poi a Riga il 10 agosto seguente e sembra che questo fatto stia all’origine della sua fase depressiva (pp. 463-465). La malattia è ricostruita con minuzia di particolari: tutte le diagnosi, le terapie, i medici che l’hanno curato nelle varie fasi. Per il soggiorno alla clinica di Ursach troviamo addirittura la citazione della brochure di presentazione di questo sito di cura (pp. 476-486).
Inizia così la fase di ripresa, che vede anche un rapporto particolare di Weber con l’Italia e con il clima soleggiato, tanto che Kaesler si sente di diagnosticare la patologia di Weber come SAD (Seasonal Affective Disorder). Arriva così l’inizio della «questione religiosa». Secondo il biografo il rapporto con l’Italia e con Roma lo porta ad interrogarsi sulle peculiarità del cattolicesimo e da qui avrebbe tratto la definizione di «Amtcharisma» (pp. 508-513), mentre la frequentazione sempre nella capitale italiana dell’Istituto Storico Germanico (allora prussiano) lo porta ai primi studi sull’etica protestante, anche in forza della relazione con Troeltsch, e, ma questo è un punto non spiegato, con i gesuiti (pp. 518-522).
Kaesler accetta la tesi della centralità del lavoro sull’etica protestante, ma, come vedremo, non al punto di far convergere tutta l’opera weberiana in questo frammento, come ha fatto per esempio di recente Peter Gosh (Max Weber and the Protestant Ethic. Twin Histories, 2014). Il fatto è che proprio in questo 1904 si concentrano molte cose, accanto alla prima formulazione del famoso testo. Weber assume la direzione dell’«Archiv» e quantomeno concorre a scriverne l’editoriale collettivo anonimo in cui si sofferma sul fatto che si vive una fase di transizione in cui il capitalismo diviene dominante ed ha ridisegnato tutto (pp. 547-549). È frutto di un momento creativo e di sintesi: troviamo il «neoidealismo» di Dilthey, Husserl, Simmel, con il «neokantismo» di Stammler, Windelband e Rickert (da cui prenderà l’idea del «verstehen» come punto di rottura fra scienze della natura e scienze dello spirito). Ad essi sono da aggiungere lo psico-fisiologo Johannes von Kreis e il giurista Georg Jellinek. Sempre in questa fase ci sono le prime formulazioni della teoria dell’idealtipo (pp. 551-555).
Indubbiamente interessanti sono le pagine (563-637) dedicate alla ricostruzione dettagliatissima del noto viaggio in America, un’esperienza che ritornerà spesso nelle riflessioni seguenti, sia con la questione della sociabilità (dai club ai partiti) sia con quella della razza (l’incontro con Du Bois).
Sono richiamate anche le riflessioni sulla Rivoluzione russa del 1905, passate quasi inosservate in Germania e che Lenin liquidò come frutto della «saggezza professorale della vile borghesia» (p. 640).
Anche se riceve offerte da Schmoller per insegnare a Berlino e da Brentano per insegnare a Monaco, rifiuta perché non si sente guarito, mentre nel 1909 visita Vienna per il Congresso del «Verein für Sozialpolitik» dove egli e il fratello Alfred si scontrano con la vecchia guardia per una nuova concezione della sociologia. Infatti il 3 gennaio 1909 è stata fondata la «Deutsche Gesellschaft für Soziologie»: Weber non sarà fra i fondatori, ma poi vi aderirà aprendo la questione della libertà dai giudizi di valore (pp. 652-666).
Interessante è ovviamente la ricostruzione che Kaesler offre dell’allargarsi del circolo di Heidelberg attorno ai Weber, dove, accanto al poeta Stefan George, arrivano i giovani Ernst Bloch, George Lukacs e poi Karl Jaspers ed altri.
Torna l’aspetto più personale e privato: è in questa fase che si apre la relazione con la pianista Mina Tobler e riappare sullo sfondo Else Jaffé (che peraltro ha una intensa relazione amorosa col fratello Alfred, ma anche con altri). Kaesler si interroga sulla doppia morale borghese di Weber e conclude che Marianne tollerava tutto perché faceva bene alla guarigione del marito (pp. 690-717). In queste pagine c’è notizia anche di una diatriba di Weber con Freud nel 1910.
Il capitolo su Weber e la Grande guerra è relativamente breve (pp. 737-759) e non contiene notizie particolarmente inedite. Il resoconto della Conferenza sulla scienza come vocazione del 7 novembre 1917 (che sarà pubblicata solo nel 1919) non aggiunge particolari di grande importanza a quanto già si sapeva.
Mi pare si possa dire che è a questo punto che la biografia di Kaesler trova il suo momento più intenso. Giustamente è dal 1917 che Weber rende pubbliche ed organizza quelle che diverranno le sue più famose intuizioni e teorie: si tratta dei suoi studi sull’etica economica delle grandi religioni (pp. 795-842). Non sono premesse postume all’etica protestante, ma vere svolte nella costruzione del concetto della «razionalità occidentale». Si tratta di una svolta nella sua vita che verrà per così dire suggellata dalla sua chiamata all’Università di Monaco nel luglio 1919.
Queste pagine sono intense ed interessanti come la tesi che sostiene (e che, per quel che vale, chi scrive condivide), mentre quelle seguenti destinate ad illustrare il Weber politico sono più semplicemente descrittive e poco penetranti (pp. 857-879).
Il capitolo finale si sofferma sull’esperienza del nostro alla Conferenza di pace di Versailles e sul suo coinvolgimento nella commissione di 13 membri che Hugo Preuss aveva creato per assisterlo nella formulazione della costituzione di Weimar. Curioso il particolare rievocato per il suo famoso rapporto col generale Luddendorf su cui si è non poco speculato: quando dopo la morte di Weber un parente andò dal generale per riavere una lettera di Weber a questi, egli rispose di non averla né di averne memoria, perché considerava «il professor Weber» un «Vaterlandsverräter» (un traditore della patria – p. 886).
La fine di questa storia è dedicata in parte alle sue vicende accademiche a Monaco (e il suo controverso coinvolgimento nel giudizio sull’assassino di Kurt Eisner), ma in parte maggiore al ritorno di fiamma per la passione verso Else Jaffé (pp. 908-919). Qui si scivola un po’ nella narrativa drammatica, con «la morte che fa il suo raccolto». Il 24 agosto 1919 muore Friedrich Naumann; il 14 ottobre la madre (e in modo non sereno); il 7 aprile 1920 la sua prediletta sorella Lili. Infine il 14 giugno muore anche Max.
La conclusione di Kaesler che si tratti della biografia di un «Preusse, Denker und Muttersohn» (p. 912) è un po’ semplicistica per un’opera di questo impegno. Se è facile convenire che Weber sia stato un «pensatore» più che il cultore di una specifica disciplina, il suo prussianesimo può essere questionabile, e il suo essere «dipendente dalla madre» è un giudizio di natura psicanalitica che non so quanto possa giovare alla comprensione di una storia intellettuale che ha segnato la comprensione dell’Occidente.