Reviewer Marco Bellabarba - Università di Trento
CitationA Vienna, nel giugno del 1919, Hans von Voltelini decise di aggiungere una Postfazione al suo libro sulle circoscrizioni giudiziarie del principato vescovile di Trento, – il celebre Das Welsche Südtirol – che era uscito recando come data di stampa l’anno precedente. A queste due pagine, aggiunte all’ultimo momento, il più grande storico tirolese della sua generazione consegnava la testimonianza del proprio stato d’animo. Parole come «tradimento», «incredibile debolezza», «fratelli di origine tedesca», riempivano di amarezza il testo. Ora che il Tirolo a sud del Brennero era divenuto «terra straniera per il tirolese tedesco», Voltelini scriveva di voler abbandonare per sempre un ambito d’indagine a cui aveva lavorato i decenni precedenti: «Vogliano altri – scriveva – nella mutata situazione, occuparsi della storia di Trento. Alla patria tedesca, ora meno estesa, il tirolese dedicherà comunque sempre il proprio lavoro scientifico, qualsiasi debba essere il destino politico del territorio tirolese».
Occorre forse partire dal senso di lacerazione provato da Voltelini, che in altri intellettuali tirolesi si tramutò presto in nostalgia o rabbia, per inquadrare gli «anni della catastrofe» di cui ci parla adesso il bel volume curato da Hermann J.W. Kuprian e Oswald Überegger. Perché senza dubbio la Grande guerra sprofondò il Tirolo in un quadriennio che la metafora della catastrofe riesce a dipingere meglio di tutte le altre parole. Dopo il crack finanziario del 1873 il Kronland aveva vissuto un periodo di lenta trasformazione delle sue strutture economico-sociali (descritte da Hans Heiss, Aufbruch in ein neues Jahrhundert) che pur distribuita in modo diseguale, più intenso nelle città e nelle aree rurali germanofone, era riuscito a estrarlo da una tradizione di marginalità rispetto ad altre aree della monarchia. Ma su questo dinamismo economico da late comer, frenato oltre tutto da istituzioni politiche decise a comprimere forze sociali e partiti ritenuti una minaccia al potere delle élite conservatrici, la guerra agì in modo dirompente.
Le zone d’ombra della ‘modernizzazione’ tirolese vennero allo scoperto appena si entrò nel primo anno di guerra. Cinque «Konfliktlinien» secondo Oswald Überegger (Illusionierung und Desillusionierung) attraversarono la società tirolese facendone affiorare i punti di debolezza: un «raumgeographische Cleavage» e un «bildungsimmanente Cleavage», che rendevano il sostegno alla guerra una caratteristica ristretta di fatto agli ambienti della borghesia colta cittadina; un «geschlechtsspezifische Cleavage», connaturato al clima cattolico e conservatore della provincia ma poi esasperato dal protagonismo solo maschile della guerra; un «nationale Cleavage» tra tirolesi di lingua italiana e tedesca anch’esso latente prima del conflitto e poi destinato a rafforzarsi; infine un «generative Cleavage» formato dalla piccola minoranza di giovani tirolesi, pangermanisti o filo irredentisti, convinti dell’utilità della guerra per porre fine a una convivenza interetnica che sentivano arrivata alla fine. Una dopo l’altra, passati gli entusiasmi della «Augustuserlebnis», queste linee di frattura si aprirono pericolosamente.
La conduzione fallimentare delle operazioni in Galizia (a dicembre del 1914 i quattro Kaiserjägerregimente reclutati in Tirolo avevano perso 23.000 effettivi, di cui 9.700 caduti sul campo), i maltrattamenti inflitti dagli ufficiali ai soldati specie di lingua italiana, il protrarsi di un conflitto che tutti avevano immaginato lungo al massimo un paio di mesi, distrussero l’immagine di un esercito moderno e plurinazionale così come l’aveva voluto la legge sulla coscrizione obbligatoria del 1868. Nonostante una martellante campagna propagandistica provasse a sostenere lo sforzo bellico (Roman Urbaner, Presse; Joachim Burgschwentner, Propaganda; Eberhard Sauermann, Literatur; Christoph Bertsch, Visuelle Künste: Malerei, Fotografie, Film), la realtà delle sconfitte prevalse velocemente sui richiami patriottici. La «Desillusionierung» invase la società tirolese in primo luogo sotto forma di difficoltà alimentari a cui la scarsità degli approvvigionamenti esterni non riuscì mai a porre rimedio: l’assenza della forza lavoro maschile portò la capacità produttiva dell’agricoltura tirolese al di sotto della soglia di sussistenza già nella primavera del 1915, quando centinaia di donne dei distretti di Trento e Rovereto erano scese in strada per protestare contro la scarsità delle razioni di cibo. Mentre l’impiego massiccio di donne nei campi o nelle fabbriche accanto ai pochi operai rimasti a casa serviva a tamponare le urgenze belliche (Angelica Willis, Arbeiterschaft und Kriegswirtschaft, Gunda Barth-Scalmani, Frauen), le condizioni igienico-sanitarie delle popolazioni subivano un brusco peggioramento; basta scorrere le statistiche sulla mortalità femminile e infantile pubblicate nel saggio di Elisabeth Dietrich-Daum; Medizin und Gesudheit (nel distretto di Cavalese il 45% dei bambini moriva entro il primo anno di vita, a Bolzano e Silandro il tasso di mortalità neonatale si aggirava tra il 25-28%) per avvertire in tutta la sua crudezza il significato dei Katastrophenjahre.
Se il periodo iniziale della guerra mise a nudo la fragilità del tessuto economicosociale tirolese, fu poi l’ingresso in guerra dell’Italia a rendere le condizioni di vita poco alla volta insopportabili. Sui campi galiziani la carneficina dei soldati austro-ungarici continuò al ritmo di sempre, segnata da offensive condotte per lo più grazie all’aiuto tedesco e da veloci ripiegamenti che costarono un tributo di vite e di prigionieri altissimo (Matthias Egger, Kriegsgefangene, calcola che tra agosto del 1914 e dicembre del 1917 l’armata zarista catturò tra i 2,7-2,8 milioni di prigionieri austro-ungarici, tra i quali 16.000-17.000 tirolesi). Fu una guerra di movimento, tutto il contrario della paralisi in cui erano intrappolati negli stessi anni i soldati nelle trincee occidentali, e allo stesso tempo una guerra quasi dimenticata. Le testimonianze diaristiche dei soldati trentini portate alla luce da Quinto Antonelli (Kriegserfahrungen: Trentiner Soldaten) spiegano bene quanto le esperienze patite in Galizia bruciassero i residui di un attaccamento alla causa asburgica che forse non era mai stato nemmeno tanto forte. Ma nei bollettini emanati dagli alti comandi dopo il maggio del 1915 gli scontri sull’Alpenfront oscurarono quanto accadeva a migliaia di chilometri di distanza. Qui si combatteva per difendere i ‘sacri confini’ della patria contro il nemico ereditario della monarchia e la retorica militarista ne approfittò. Il mito del Krieg in den Alpen nacque a dire il vero per un concorso di forze della propaganda italiana e austriaca, che costruirono simultaneamente l’immagine di una guerra romantica, nella quale alpini e Kaiserschützen si affrontavano in combattimenti eroici ma leali, interpreti di una concezione cavalleresca del combattimento ormai sconosciuta in altri teatri bellici.
I saggi che nel volume approfondiscono i risvolti quotidiani della guerra in Trentino (Erwin A. Schmidl, Kriegführung: Die österreichisch-ungarische ‘Südwestfront’; Isabelle Brandauer: Soldaten im Gebirgskrieg; Oswald Überegger, Militärgerichtsbarkeit) sono una preziosa riscrittura di quell’immagine. La ‘narrazione’ (Marco Mondini, Kriegführung: Die italienische Gebirgsfront) oltrepassò agevolmente il 1918, fino a diventare uno dei cardini dell’epopea della Grande guerra italiana. Un genere analogo di memorialistica resistette nell’Austria repubblicana e in particolare in Tirolo; a tale proposito vale la pena di osservare che, oltre a mettere in un angolo le migliaia di morti caduti contro i russi (o quelli, ancora più imbarazzanti, uccisi in Serbia), il ricordo ufficiale della guerra di montagna ai confini italiani servì anche a isolarla da tutto ciò che la circondava – come se fosse stata un affare esclusivo tra uomini in uniforme, privi di contatti con la società civile.
Il volume riesce invece ad ampliare la cornice d’analisi al mondo che stava intorno alle operazioni belliche, uomini e donne di tutte le età che patirono sulla propria pelle, con un’intensità di sofferenze a volte paragonabili ai soldati, il trascorrere dei Katastrophenjahre. Le espulsioni forzate dalle proprie case di migliaia di trentini costretti a dirigersi verso le tristi ‘città di legno’ austriache e morave sono la più celebre delle epopee in negativo di quegli anni, ma non la sola; possiamo aggiungere l’arrivo in massa di prigionieri russi e serbi, le traversie dei soldati tirolesi sballottati da un punto all’altro della Russia dopo il 1917, la cacciata degli italiani che lavoravano numerosi nel Vorarlberg prima del 1915. Sono vicende di vittime ‘collaterali’ (Hermann J.W. Kuprian, Zwangsmigration; Wolfgan Weber, Vorarlberg), in grado però di offrirci una descrizione a tutto tondo del primo conflitto mondiale, toccando aspetti fino a qualche anno fa appena sfiorati dagli studi.
Terminati i combattimenti, il Weltkrieg si depositò nel patrimonio memoriale italiano e austriaco in modo da ostruire ogni possibilità di dialogo (per questo si vedano i contributi di Nicola Fontana e Mirko Saltori, Trentino; Andrea di Michele, Besatzungszeit; Oswald Überegger, Geschichtsschreibung und Erinnerung; Hermann J.W. Kuprian, Militarisierung der Gesellschaft): guerra di redenzione nazionale da parte italiana, con l’effetto di cancellare dai ricordi i soldati trentini che avevano combattuto dalla parte ‘sbagliata’ e di ritenere sospetta di austriacantismo buona parte della popolazione locale; guerra per la difesa di un pezzo di patria tirolese da parte austriaca, che reagì mettendo al centro delle sue ricerche non l’analisi del conflitto, ma soprattutto il trauma del «Gebietsverlust» che tanto colpì, come abbiamo visto, anche Hans von Voltelini. Dobbiamo essere grati a questo volume per averci restituito con rigore e imparzialità, senza cedere al gusto banale della commemorazione, una pagina così importante della storia comune trentino-tirolese.