Reviewer Emmanuel Jousse
Citation«Le traduzioni sono come quelle monete di rame che hanno lo stesso valore di una moneta d’oro, e magari sono più usate dal popolo, ma sono sempre deboli e di cattiva lega. Voi dite di voler far rinascere tra noi quei morti illustri, e riconosco che in effetti date loro un corpo, ma non gli restituite la vita: manca sempre uno spirito che li animi». Così Montesquieu nella Lettera Persiana CXXIII rinchiude il traduttore nel dilemma tra l’imitazione scrupolosa dello scritto originale e la sua rielaborazione per un lettore straniero. Paradossalmente, proprio la letteratura illuminista aperta su orizzonti lontani squalifica il passaggio da una lingua all’altra; altrettanto paradossalmente, un’età di intensa circolazione di forme estetiche come il Romanticismo nasconde il volto del suo intermediario – il traduttore. All’inizio dell’Ottocento, l’immagine del traduttore oscilla fra il mero agente di trasmissione e il creatore, genio che supera il confine della propria lingua nella comprensione di opere straniere – come l’Odissea e l’Iliade di Johann Heinrich Voß. Tra questi estremi si trova una figura sconosciuta ma essenziale: la figura del mediatore, intermediario tra due culture che facilita la comunicazione dall’una all’altra, senza appartenere di fatto né all’una né all’altra. Non sono i pappagalli di Montesquieu; non sono neanche le fenici di Schleiermacher, sono «pensanti tra le lingue», come scrive Heinz Wismann.
Leslie Brückner restituisce brillantemente l’itinerario di una di queste personalità Adolphe-François Loève-Veimars (1799-1854). Di origine tedesca benché di cultura francese, diventò con sue critiche teatrali un prestanome della generazione romantica negli anni Trenta dell’Ottocento. Le sue traduzioni lasciarono il segno sulla letteratura francese: fece conoscere Heinrich Heine in quanto autore di prosa con De l’Allemagne (1832-1833), e fece nascere il genere fantastico dalla sua traduzione delle opere di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1829-1833). La sua attività di mediazione si spostò nel campo diplomatico, quando fu inviato da Adolphe Thiers in Russia (1836), a Bagdad (1840-1848) e a Caracas (1848-1854). Una vita talmente intensa da sembrare impossibile da raccontare senza un filo conduttore. Tuttavia, Leslie Brückner si avvale molto opportunamente del metodo dei transferts culturels, messo a punto da Michel Espagne e Michael Werner. In rotta con la prospettiva chiusa dietro la categoria di Stato-nazione, in rotta con un rigido comparativismo, Espagne e Werner dimostrarono l’interdipendenza tra le culture, caratterizzata da due tendenze interconnesse di appropriazione, da un lato, e di chiusura, dall’altro, verso l’opera straniera. In concreto, l’opera e la sua traduzione devono essere comprese tanto nell’ambiente originale quanto nel contesto d’appropriazione, in modo da rivelare le differenze da cultura a cultura. In particolare il fenomeno di acculturazione deve essere inteso come la creazione attiva di una nuova opera, nella quale l’incomprensione e il malinteso sono tanto significativi quanto l’affinità intellettuale.
Leslie Brückner costruisce la sua analisi in tre tempi, a seconda del ruolo che Loève-Veimars incarnò sulla scena. Comincia con lo schizzare una biografia «panottica», mostrando come la posizione di mediatore occupata da Loève-Veimars fosse radicata nell’instabilità di un età di mezzo. Cercò, infatti, di mascherare con ogni mezzo la sua origine ebraica, basò il suo successo sulla sua identità tedesca ma fece il possibile per integrarsi nell’alta società francese, con le sue trame e le sue vanità – la Légion d’Honneur – ottenendo il titolo di barone. Ma proprio questa posizione scomoda tra due culture e due lingue nutrì un progetto letterario in cui l’intertestualità divenne lo specchio della cultura universale (Les Manteaux, 1822) e dove il dialogo tra le nazioni e le tradizioni costituì l’intreccio (Le Népenthès, 1833). Loève-Veimars si integrò perfettamente nella nebulosa della generazione romantica, scrivendo nei suoi giornali («Le Temps», «Le Journal des Débats»), frequentando i suoi cenacoli (l’Arsenal di Charles Nodier). Il destino balzachiano del giovane ambizioso alla conquista dei saloni parigini si fondò sulle sue traduzioni, che sono meticolosamente studiate nella seconda parte del volume.
Leslie Brückner spiega con grande chiarezza il conflitto tra due tradizioni: la prima, discendente dal Classicismo francese, che mira all’adattamento dell’originale al gusto francese; la seconda, plasmata dal Romanticismo tedesco, che tende alla restituzione integrale del testo, con tutta la sua estraneità e profonda originalità di opera straniera. Loève-Veimars rientrò nella prima, come dimostra la traduzione delle opere di E.T.A. Hoffmann. La pubblicazione, operazione commerciale dell’editore e promossa dai legami del traduttore con i circuiti artistici, portarono il successo di Hoffmann in Francia, mentre era invece poco letto in Germania. Questo risultato asimmetrico fu la conseguenza di diversi fattori. Loève-Veimars descrisse Hoffmann come il simbolo dell’«artiste maudit», accolto con favore da Walter Scott, il quale era punto di riferimento assoluto, e creò un eroe perfettamente adatto agli ideali della generazione romantica. Privilegiò alcuni temi, come l’arte o il pittoresco delle descrizioni storiche. Si sottopose all’esigenza di una lingua chiara, in contraddizione con lo stile esoterico dello scrittore tedesco: così si spiegano i tagli, i rifacimenti, i cambiamenti di stile. Paradossalmente, però, questi aggiornamenti renderanno possibile un’efficacissima appropriazione da parte del lettore francese: la traduzione dei Contes d’Hoffmann di Loève-Veimars lanciò la nuova moda del «genre fantastique», influenzando tanto la letteratura francese, dalla Cafetière di Théophile Gautier (1831) allo Horla di Guy de Maupassant (1886), quanto l’immaginario collettivo, dall’adattamento musicale di Jacques Offenbach (1881) alla critica tagliente dell’urbanistica del Secondo Impero di Jules Ferry, contro Les comptes fantastiques d’Haussmann (1868). L’attività del traduttore è una mediazione tra due culture: trasformò la cultura ospitante (creazione del genere «fantastique»), echeggiando la cultura d’origine. Tuttavia, alcune precisazioni mancano alla tesi dell’autrice: se l’influenza della traduzione da Loève-Veimars sembra decisiva per la creazione del genere fantastico, altre tradizioni dovrebbero essere evidenziate, mostrando la circolazione dei temi tra l’Europa romantica. L’importanza del «roman noir» e del Frankenstein di Mary Shelley (1819) o la «vogue frénétique» di Pétrus Borel, per esempio, riflettono un ambiente estetico che non può essere ridotto al transfert culturel franco-tedesco. Inoltre, l’ultima fase del percorso delineato manca di un tassello: la traduzione francese ha favorito la popolarità di Hoffmann in Germania, e ha contribuito a cambiare la percezione del suo stile?
La terza parte descrive un altro ruolo più istituzionale di mediazione: il diplomatico. Loève-Veimars andò in Russia grazie al sostegno di Adolphe Thiers. Senza una missione particolare, senza una posizione solida, incontrò Puškin, e formulò il progetto di divenire per la Russia un altro Tocqueville. L’esperienza non ebbe seguito e Loève-Veimars fu nominato console generale di Francia a Bagdad per difendere gli interessi francesi, mentre la questione d’Oriente veniva rilanciata nel 1840. Dopo un viaggio anticipatore di quelli di Flaubert e Nerval, arrivò a Bagadad, ma la sua attività gli riuscì noiosa, a parte la sua partecipazione alla scoperta delle rovine assire, che costituirono la base per la collezione orientale del Musée du Louvre. La sua missione a Caracas fu altrettanto ordinaria, e quando Loève-Veimars morì a Parigi nel 1854, era caduto nell’oblio.
Questa vita straordinaria, fatta emergere da archivi inediti o fin qui trascurati (corrispondenze, giornali e riviste, traduzioni), è un capolavoro d’erudizione e di chiarezza. La lettura potrebbe probabilmente essere resa difficoltosa dalle citazioni francesi non tradotte, ma questo caso esemplare di trasferimento culturale merita certamente ogni elogio. Nessun aspetto sfugge all’inchiesta, tanto che le numerose vite di Loève-Veimars, traduttore e diplomatico, rischiano di contrapporsi.
Il contrasto tra l’appassionante seconda parte e la terza parte del volume è rivelatore. Non tutti i trasferimenti si equivalgono. È vero che il traduttore come il diplomatico sono figure di mediazione, ma il primo si tiene tra due culture e si impegna a renderle permeabili l’una all’altra, mentre il secondo può accontentarsi di stare su un lato. Una prova sarebbe che Loève-Veimars, dopo essere stato nominato console generale a Bagdad, non si dedicò al dialogo interculturale, e quando Maxime Du Camp gli fece visita per la preparazione del viaggio con Gustave Flaubert, scoraggiò i giovani scrittori descrivendo un piccolissima città di provincia, mortalmente noiosa, e con una cultura di cui lui stesso era rimasto profondamente estraneo. La biografia di Loève-Veimars rivela quindi i limiti del metodo dei transferts culturels, non pertinenti nell’analisi della relazione tra universi radicalmente distanti. Nonostante le loro numerose differenze, Francia e Germania condividono lo stesso substrato culturale, che favorisce il dialogo. Senza questo substrato – come tra l’Europa romantica e la civiltà ottomana – i transfer rimangono isolati, discontinui. I transferts culturels restano un problema della storia europea e, come lo sono le Lettere Persiane di Montesquieu, un discorso sulle differenze che conduce alla conferma delle identità. D’altra parte, la figura del mediatore non solo si situa tra due culture, ma congiunge anche due società, con le loro organizzazioni e i loro rapporti di forza, con le loro dinamiche di ascesa e di esclusione sociale. Per divenire il filtro dell’ibridazione, un mediatore come Loève-Veimars non può prescin- dere dal vivere in una situazione scomoda, sospesa, di mezzo. Ma può quella situazione divenire definitiva? Per Loève-Veimars, l’attività di traduzione non è un fine in sé, ma un modo per promuoversi ed integrarsi, che si interruppe nel momento in cui fu nominato diplomatico accreditato a Bagdad nel 1840. Altri casi potrebbero dimostrarlo: l’attività del mediatore, e del traduttore in particolare, nell’Ottocento sono proprie di individui che, provenienti dai confini del campo culturale, ambiscono a conquistarne il centro. Questo popolo di esuli, di giovani, di donne, diviene l’agente principale dello scambio culturale, perché chi ne fa parte cerca una posizione. In questo senso, il traduttore è una figura della transizione. È indiscutibile che la bellissima ricerca di Leslie Brückner riempie un vuoto sul personaggio, ma il metodo dei transferts culturels incontra ostacoli restrittivi che impediscono qualsivoglia generalizzazione. In questo senso la figura di Loève-Veimars non è esemplare: è unica.