Reviewer Giovanni Bernardini - FBK-ISIG e European University Institute
CitationAll’indomani del primo conflitto mondiale, il Presidente della neonata Repubblica Cecoslovacca Thomas Masaryk vedeva l’Europa alla stregua di «un laboratorio costruito su un enorme cimitero». L’immagine compendiava tanto la contemplazione impotente del disastro appena concluso quanto l’ottimismo della volontà che il dopoguerra aprisse la strada a sperimentazioni per l’avanzamento della pace e del benessere del Vecchio Continente. Sebbene la citazione si riferisca a un momento particolare della storia europea, essa coglie al meglio il significato dell’operazione racchiusa nel volume curato da Raphael: aprire nuove strade allo studio dell’Europa e delle sue società nel lungo XX secolo come luogo privilegiato per teorie ed esperimenti di ordine e razionalizzazione (Ordnungsentwürfe) concorrenti tra di loro. Data la complessità del tema, è necessario rilevare subito una criticità o almeno una contraddizione in termini che è già nel titolo dell’opera, e che il suo svolgimento non contribuisce a risolvere: se l’aspirazione all’ordine e alla progettazione sociale è un attributo intrinseco alla modernità europea, come molte voci autorevoli hanno sostenuto, la sua limitazione al secolo scorso avrebbe necessitato di una giustificazione che invece è assente. Detto altrimenti: se i partecipanti al volume concordano con un’accezione restrittiva della modernità, che ne limita l’estensione temporale all’epoca successiva alla seconda rivoluzione industriale e al definitivo affermarsi della «questione sociale» (e non al XVI secolo, come altri suggeriscono), una definizione concettuale e operativa di tale scelta avrebbe giovato anche alla proposta di rinnovamento della storia sociale di cui il libro si fa promotore. Come è spesso il caso, dunque, un maggiore sforzo concettuale attorno all’eterno problema della periodizzazione (a cui pure il curatore si è dedicato lungamente altrove) sarebbe risultato in un valore aggiunto, piuttosto che in un esercizio fine a se stesso.
Quanto detto non pregiudica i tanti meriti del volume, che muove dalla volontà programmatica di concentrare l’attenzione sugli esperti e gli scienziati sociali (piuttosto che sui politici ed ideologi) che hanno dato il loro contributo alla pianificazione e all’attuazione «delle dinamiche di sviluppo sociale secondo i binari delle loro visioni del futuro e dei loro progetti di ordine». Il libro si inserisce in un’articolata serie di contributi sulla storia sociale europea nel XX secolo e sui suoi aspetti più peculiari (i media, le città, le religioni): tutti provengono da un ampio network internazionale che ha evidentemente offerto opportunità di confronto tra i coautori. Certamente a conferire un carattere inequivocabile alla raccolta è il saggio di apertura del curatore Lutz Raphael, volto a ribadire e concretizzare un filone di ricerca condotto dall’autore ormai da più di due decenni attorno alla necessità che la storiografia tenga in maggiore considerazione quei processi di «scientifizzazione del sociale» che nel Novecento hanno costituito ben più della mera proliferazione di discipline e competenze professionali: come tutti i saggi inclusi nel volume illustrano chiaramente, dall’ultimo quarto del XIX secolo la «sociologizzazione» dell’osservazione, dell’introduzione di elementi di ordine e della loro gestione manageriale ha condizionato radicalmente la percezione e l’autodescrizione delle società stesse; e dunque anche le modalità attraverso cui la politica ha pianificato e concretizzato i propri interventi. Dato il suo carattere metodologico e programmatico, il contributo che apre il volume non manca di rilevare quanto la proclamata apertura della storia sociale alla sfera della cultura e delle idee come fenomeno transnazionale si scontri ancora con una realtà ben diversa, fatta in gran parte di studi centrati su casi nazionali, senza un consenso generalizzato su metodi e approcci. Per tale ragione, l’immagine che secondo Raphael meglio la descrive è quella di «cittadini muniti di cuffie audio sulla stessa linea di metro». Fuor di metafora, quest’ultima è costituita dall’Europa stessa, che nel XX secolo ha cessato di esistere come mero «supercontainer continentale» dotato di caratteri di eccezionalità, per divenire un «punto di osservazione di forme sovrapposte di socializzazione globali come anche regionali o nazionali».
D’altro canto, la «provincializzazione dell’Europa» e della sua storia, oggi proclamata da più parti, comporta come duplice corollario un approfondimento di quanto ha accomunato le società che la compongono, e la migliore definizione di tali caratteri comuni per procedere al confronto con ciò che è al di fuori dell’Europa. Quanto al primo aspetto, il saggio di Hartmut Kaelbe cerca di tracciare un bilancio circa i fenomeni di convergenza e divergenza tra le società europee dopo il 1945. Per quanto il contributo intenda soprattutto suggerire ulteriori piste di ricerca e mettere in guardia contro aporie metodologiche, Kaelbe giunge alla stimolante conclusione che il processo politico di integrazione europea, per quanto profonda sia stata la sua influenza, non è necessariamente l’unica né la principale ragione di convergenza delle società dei suoi stati membri, dato lo scarso interesse al tema che gli organi comunitari avrebbero mostrato sino agli anni Novanta. Semmai non sarebbe impensabile invertire i termini dell’ipotesi: la convergenza delle società europee, dovuta a fattori endogeni ed esogeni, ha influenzato i tempi e i modi con cui le autorità politiche hanno proceduto alle tappe dell’integrazione. D’altro canto, il saggio di Wolfgang Knöbl illustra quanto, fino a tempi recenti, lo stesso concetto di Europa sia stato utilizzato per lo più da gruppi di intellettuali e comunità epistemiche per la loro autodescrizione e collocazione sociale, mentre ben minore sarebbe stato il suo uso sistematico all’interno delle scienze sociali. Ne consegue che per queste ultime molto terreno rimane da dissodare in termini di metodo e di ricerche empiriche. Per ciò che è stato fatto a livello nazionale e sovranazionale, tuttavia, il contributo di Benjamin Ziemann illumina un aspetto talvolta sottostimato delle scienze sociali: la loro naturale predisposizione a produrre rappresentazioni e metafore della società presa in esame, che non di rado hanno la forza di (o aspirano esplicitamente a) imporsi fuori dal campo di indagine originario. Ne consegue il rischio implicito di una riconduzione dell’intera società alla sua rappresentazione, e la riduzione al rango di elemento residuale per tutto ciò che non vi è ricompreso.
Accanto ai saggi di impianto più teorico, altri prendono in esame aspetti peculiari o casi specifici degli esperimenti sociali della modernità: come con i contributi di Dietrich Beyrau e Adelheid von Saldern, dedicati rispettivamente al modello sovietico e al fordismo, ovvero a due approcci che hanno indubbiamente segnato il secolo scorso. Nel primo caso ad emergere è al contempo la vastità e l’arti- colazione del progetto modernizzatore e ordinatore sovietico, la sua ambizione a un’opera di ingegneria sociale radicale e totalizzante, ma anche l’alto grado di burocratizzazione e alienazione dalla realtà che esso comportava. Quanto al saggio sul fordismo, esso si concentra sulla sorte occorsa a un «modello di ordine visionario» che, nato in risposta a necessità di razionalizzazione economica e produttiva, conobbe un’estensione ben più ampia in tutte le sfere del sociale.
Senza voler fare torto agli altri contributi, una menzione particolare meritano quelli di Thomas Etzemüller e Dirk van Laak. Nel primo l’autore riprende il filo dei suoi studi recenti per ribadire l’importanza del «social engineering» come chiave di lettura del secolo e delle sue aspirazioni a razionalizzare la vita sociale attraverso la strutturazione dello spazio che la accoglieva. La scelta di prendere in esame frammenti concreti di progetti urbanistici, abitativi o dei luoghi di lavoro consente di valutarne la continua emulazione e rielaborazione reciproca pure all’interno di idee di ordine e utopie concorrenti, contribuendo in tal modo a destrutturare e complicare polarità politiche sedimentate nella storiografia. In modo non dissimile e forse ancora più suggestivo, van Laak propone la tecnocrazia come vera «ideologia nell’ombra» per l’Europa del XX secolo: la sua pretesa «impoliticità» l’avrebbe al contrario resa una componente fondamentale per esperienze politiche diverse e non di rado contrapposte, fino a estendere la sua influenza discreta ma considerevole all’Europa dei giorni nostri.
In conclusione, pur scontando un grado non irrilevante di eterogeneità tra i contributi, il volume curato da Raphael costituisce un’operazione certamente riuscita. Esso indica e propone aree tematiche, contaminazioni disciplinari e sentieri metodologici non scontati né facili, ma altrettanto necessari sia al rinnovamento della storia sociale, che a una comprensione più profonda e complessiva del XX secolo europeo, inteso come locus spazio-temporale delle sperimentazioni ordinatrici della modernità.