Reviewer Erica Mezzoli
CitationPaul Shore si pone il non semplice obbiettivo di investigare la presenza gesuita in un contesto politico, amministrativo, economico ed infine religioso disorganico come quello delle periferie dell’Impero asburgico in età moderna. La scelta cronologica non è dettata dalle vicende di natura politico-militare dello scenario orientale dell’Impero, ma risponde piuttosto alla storia della Compagnia di Gesù. Abbastanza comprensibilmente, la ricerca trova il suo termine ultimo nel 1773, anno della soppressione dell’ordine. Più significativo è invece il suo momento iniziale, gli anni Quaranta del Seicento che corrispondono al primo giubileo dell’Ordine di Sant’Ignazio, la fase del suo apogeo, per la cui occasione il padre gesuita Jean Bolland ebbe occasione di constatare che per la Compagnia un mondo solo non era abbastanza.
Il libro si articola in quattordici capitoli. I primi tre sono di carattere preparatorio e hanno lo scopo di posizionare la questione della presenza gesuita, dell’operato e delle caratteristiche della narrazione della realtà da parte degli appartenenti all’ordine nel contesto geografico e cronologico in esame. Alcuni capitoli successivi si concentrano soprattutto nell’illustrare l’esperienza missionaria dei padri gesuiti in alcune specifiche località tra le quali Prešov, Banská Bystrica, Belgrado e Trnava. Nei restanti, l’autore affronta la questione del significato dell’operato gesuita nel contesto della periferia rurale dell’Impero asburgico, del peso della superstizione tra le popolazioni locali e delle modalità di intervento missionario ed educativo dei gesuiti in un ambiente caratterizzato, oltre che da un estrema frammentarietà religiosa, dalla precarietà delle condizioni materiali di vita ed anche dalla pressoché totale mancanza di infrastrutture istituzionali sul territorio. Infine, il volume presenta una utile tabella nella quale vengono riportate le diverse forme, nelle diverse lingue e vernacoli locali, dei nomi storici delle località rilevate nei documenti d’archivio.
L’autore ha costruito la sua ricerca su una straordinaria quantità e varietà di letteratura e documentazione d’archivio. A questo proposito, accanto all’analisi delle più consuete fonti romane conservate presso l’Archivum Romanum Societatis Iesu e l’Archivio Storico De propaganda Fide, Shore ha realizzato un’intensa attività di ricerca anche in biblioteche ed archivi austriaci, ungheresi, slovacchi e rumeni, da cui è risultato un profondo ed articolato ritratto non solo delle caratteristiche della presenza gesuita, ma anche del suo significato politico nell’ottica del rafforzamento della legittimità del potere degli Asburgo su quei territori.
La questione del significato dell’avversità e dell’incontro tra padri gesuiti ed altre culture e confessioni religiose è uno dei nodi storiografici che Shore vuole affrontare direttamente. Infatti l’autore dichiara esplicitamente di volersi distaccare dall’approccio interpretativo che ha dominato gli ultimi vent’anni di studi sull’Ordine di Sant’Ignazio, ovvero la tendenza a considerare più dal punto di vista spirituale che teologico le azioni degli appartenenti alla Compagnia mettendo in primo piano i legami profondi che i padri gesuiti erano in grado di instaurare con le culture ‘ospitanti’. L’autore, pur riconoscendo il valore di tale orientamento, riscontra che, almeno per il caso delle periferie orientali dell’Impero asburgico, l’unico modo per comprendere l’esperienza gesuita è quello di considerare la religiosità formale dell’ordine, soprattutto negli elementi limitativi e stereotipanti dell’esegetica che spesso potevano portare a situazioni di conflitto ed ostilità con le comunità locali, quale elemento profondamente orientante delle opere missionarie.
Dalla narrazione storica ricca di episodi significativi, nel complesso Shore ci restituisce un’immagine dei padri gesuiti che operavano nelle periferie orientali dell’Impero asburgico come quella di una serie di gruppi isolati di uomini che agivano la loro missione in un contesto di grande difficoltà, precarietà e spesso anche di pericolo. Sembra infatti che la loro costante percezione del pericolo condizionasse profondamente la loro sensibilità descrittiva circa la realtà che li circondava.
Dato tale clima psicologico, la loro percezione, interpretazione e, di conseguenza, narrazione del mondo risulta totalmente guidata dal senso del mistero, dove il magico e l’intervento miracolistico di Dio – che, assieme ad altri modi, spesso si palesava in segni di croci nel cielo – assumevano un valore particolarmente performante. Nello specifico del contesto geografico in esame, il significato del miracolo assumeva un valore particolare, visto che costituiva l’unica ‘prova’ della bontà della loro missione, data la pressoché totale mancanza di successo nell’opera di ‘ricattolicizzazione’, nell’ottica tridentina, dei potentati locali. Per quanto riguarda invece il martirio, sebbene dagli anni Ottanta del XVII secolo non ci fossero più stati casi di gesuiti martirizzati in Transilvania o Ungheria e benché il martirio fisico non fosse tra gli obbiettivi dell’ordine nel contesto geografico analizzato dalla ricerca, il suo significato spirituale rimaneva comunque, a livello profondo, molto presente e si traduceva nella glorificazione dell’opera missionaria in un ambiente percepito come estremamente ostile.
Shore evidenzia che nella pratica i padri gesuiti rispondevano a questo ambiente di pericolo ed insicurezza facendo continuo riferimento alla cultura e alle prassi del proprio ordine, interpretando la complessità dei contesti sociali nei quali si trovavano attraverso uno schema dicotomico che contrapponeva drasticamente il male al bene, dove ogni azione umana veniva letta come il risultato della lotta tra queste due forze. Se da una parte tale atteggiamento si rendeva funzionale nel conferire loro sufficiente fiducia e sicurezza in modo da poter continuare l’opera missionaria, dall’altra esso si configurava come un elemento che si frapponeva tra essi e le popolazioni locali, impedendo ai padri gesuiti di entrare veramente in contatto e comprendere appieno i meccanismi delle realtà sociali che li circondavano.
L’autore mette in risalto che le missioni gesuite nelle periferie orientali dell’Impero asburgico tra Sei e Settecento presentavano una forte rigidità di metodo che, sommata allo scarso numero di padri missionari e ad un’indiscutibile grossolanità d’approccio soprattutto nei confronti del cristianesimo ortodosso, limitava fortemente la possibilità dei propri membri di superare i consueti schemi interpretativi e di intervento missionario. In questo senso, il caso della missione di Belgrado tra il 1717 e il 1739 è esemplare. Se da un lato l’impossibilità di conservare la città all’interno dei confini imperiali ha certamente condizionato il successo della missione, la mancanza di dimestichezza con l’ortodossia e con la lingua locale – Shore infatti ricorda che i gesuiti si rivolgevano alla popolazione di Belgrado in ceco anziché in serbo – dimostra la rigidità e tutti i limiti nella capacità di adattamento dei missionari alle circostanze del momento.
Per concludere, la ricerca di Paul Shore, in virtù della sua profondità ed accuratezza tanto dal punto di vista storiografico quanto per quello relativo alla ricerca archivistica, è destinata a rappresentare certamente per un periodo non breve il punto di riferimento per ogni ulteriore studio che volesse affrontare la difficile questione non solo della presenza gesuita in sé, ma anche come declinazione della politica di Vienna, in un contesto di estrema complessità come quello delle periferie orientali dell’Impero asburgico in età moderna.