Reviewer Marco Bellabarba - Università di Trento
CitationNell’Europa ricostruita, o faticosamente ‘resturata’, dal Congresso di Vienna, la Verfassungsfrage racchiude in sé un campo di tensioni politiche e di contrasti sociali che coinvolge tutti gli stati europei. Per più di cinquant’anni, la Sattelzeit sette-ottocentesca è scandita dalla ricerca di un equilibrio tra la sovranità degli stati e i limiti posti a essa dai diritti individuali ‘scoperti’ nel periodo rivoluzionario. Il libro curato da Werner Daum (frutto di un più ampio progetto di ricerca sul costituzionalismo europeo realizzato presso l’Università di Hagen con il finanziamento della Friedrich Ebert Stiftung di Bonn), racconta la storia della «questione costituzionale» e di come essa trasformò le strutture politiche del vecchio continente fino allo scoppio delle rivoluzioni di metà secolo. Le mille e cinquecento pagine dell’Handbuch non contengono però solo un’analisi tecnica delle tante carte costituzionali concesse (ma poi spesso precipitosamente ritirate) dai sovrani europei di primo Ottocento; esaminare istituzioni e prassi giudiziarie nel loro «gesellschaftlichen Wandel», come annuncia il titolo, offre al lettore molto altro – e molto di più.
L’orizzonte geografico, per cominciare, oltrepassa di continuo i limiti del vecchio continente. Il primo saggio del volume, quello di Peter Brandt (Gesellschaft und Konsitutionalismus in Amerika 1815-1847), è dedicato al confronto tra i modelli costituzionali europei e i loro omologhi americani realizzatosi grazie ai flussi di scambio tra colonie e metropoli nel corso del tramonto borbonico; ripercorrendo la contrastata recezione della Carta di Cadice del 1812 (fondata sul suffragio universale maschile nelle elezioni di primo grado e un Parlamento monocamerale), Brandt esamina i Transferprozesse giuridici imposti sulla scena politica americana, non mancando di sottolineare il legame fra la costituzio- nalizzazione dei moderni stati burocratici e gli assetti coloniali. Ma un forte taglio comparativo, oltre all’ampia copertura degli spazi geografici, sono una cifra comune al volume. Dalle periferie iberiche, i casi più noti di recezione costituzionale europea, i contributi dell’Handbuch ritornano al cuore del vecchio continente, inclusa l’isola inglese, toccano gli Stati scandinavi e la Finlandia, scendono verso l’area balcanica (Serbia, Grecia, principati danubiani) per poi inoltrarsi negli immensi territori imperiali russo e ottomano.
La molteplicità dei casi di studio non lascia dubbi: Verfassung in senso materiale, Konstitution come suo deposito cartaceo, Konstitutionalismus come orizzonte discorsivo delle pratiche costituzionali, sono temi indispensabili per comprendere il tentativo di legittimarsi delle comunità politiche formate dopo Vienna (è questo il tema della sintesi di Pierangelo Schiera, Europäisches Verfassungsdenken 1815-1847. Die Zentralität der Legislativgewalt zwischen monarchischem Prinzip und Legitimität, pp. 165-208). L’urgenza della «questione costituzionale» è ovunque un rumore politico di fondo, non solo nei paesi europei dove, a partire con la Norvegia nel 1814, i poteri del sovrano sono poco a poco moderati dai parlamenti e da un dibattito costituzionale sempre più vivace. Anche nell’autocratico Impero zarista, che pure una Costituzione in questo periodo non l’avrà mai, il «Verfassungsthema» agita l’agenda di corte almeno sino al 1825, l’anno di ascesa al trono del reazionario zar Nicolò II; ed è un tema ancora forse più dibattuto tra i palazzi del sultano e la residenza del gran visir (sadrazam) ottomamo, nei quali si cerca di arginare il declino politico-militare con un convulso e mai del tutto risolto «Ideentransfer» di costituzionalismo occidentale (si vedano, per riferimenti più puntuali i saggi di Dietmar Wulff, Michail Dmitrievič Karpacěv, Russland, pp. 1221-1262 e di Tobias Heinzelmann, Das Osmamische Reich, pp. 1318-1327).
Proprio scorrendo un campione così variegato di esempi, risulta immediata la scarsa utilità dell’etichetta consueta di Restaurazione. Il post-1814 non è per nulla un’epoca segnata dal recupero conservativo, più o meno riuscito, degli ordinamenti di antico regime. Al contrario, gli schemi monarchico-costituzionali abbozzati durante l’età napoleonica sono all’origine di rielaborazioni continue che prendono avvio da quell’esperienza e ne sono segnate profondamente. In un lungo capitolo introduttivo posto dopo il saggio di Brando Fassbinder sulle Internationale Beziehungen, il curatore segue le tracce delle varianti napoleoniche nell’Europa di primo Ottocento; dopo aver ricostruito in modo comparativo la «Verfassungsstruktur der zentralen staatlichen Ebene», Daum dedica una serie di paragrafi a temi specifici, che gli permettono di toccare più in concreto la Verfassungsfrage: diritti e procedure elettorali; diritti fondamentali, amministrazione, giustizia, esercito, cultura costituzionale, chiesa, educazione, finanze, legislazione economica e sociale (pp. 94-164).
Questa struttura – un quadro preliminare di carattere storico e dopo di esso un approfondimento costituzionale articolato per temi – è replicata identica nei saggi dedicati ai singoli territori: Gran Bretagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Polonia, Spagna, Germania e Impero austriaco (dove i territori della corona ungherese sono giustamente trattati in un capitolo a parte), Svezia, Danimarca, Norvegia, Impero russo, Finlandia, Impero ottomano, principati rumeni di Moldavia e Valacchia, Serbia, Grecia e Portogallo. Tranne alcuni saggi decisamente più corposi, dedicati a Francia, Inghilterra e area tedesca, i rimanenti occupano uno spazio non troppo dissimile tra loro, scelta per certi aspetti discutibile se si misurano le poche pagine di differenza che separano i minuscoli principati del Liechtenstein o del Lussemburgo dallo sconfinato territorio zarista. Ma certo una scaletta tematica così omogenea favorisce le possibilità di misurare continuità e scarti rinvenibili nel variegato panorama politico-costituzionale europeo.
Un primo tratto comune concerne il rafforzamento della posizione del sovrano, il cui ruolo facilita il passaggio dei regimi politici oltre il tornante storico del 1814-1815. Il «monarchisches Reservat», il diritto esclusivo del sovrano in materie di guerra resta intatto negli stati privi di costituzione, nei nuovi Verfassungsstaaten (Belgio e Olanda dopo il 1830) e persino, per quanto con molte limitazioni, nella Gran Bretagna del periodo successivo alla riforma elettorale del 1832. Un secondo aspetto, anch’esso utile a smussare il valore periodizzante della Restaurazione, riguarda l’evidente continuità con i modelli dell’ultimo assolutismo illuminato e con l’accentramento dei poteri scaturito dai conflitti d’età napoleonica. Pur venendo da storie con premesse diversissime – la Ancient Costitution inglese da un lato, le codificazioni scritte di matrice francese dall’altro – gli stati e gli imperi creati a Vienna paiono incamminarsi per strade abbastanza simili.
Comincia adesso, per tutti, un lungo confronto con la nuova legittimità politica a base nazionale che implica un costante processo di adattamento del corpo politico e dei suoi organismi. Imperi e stati nazionali cercano di evolvere le loro fonti di legittimazione (radicamento dinastico, fondamento religioso, sicurezza militare), e di ravvivare il loro Etatismus alla luce di principî costituzionali e liberali. È l’esito di questo confronto, tuttavia, a interrompere o a far deragliare il trend di crescita dei poteri statali-amministrativi. A partire dagli anni Trenta le storie costituzionali europee divergono tra loro. I due estremi sono rappresentati dall’evoluzione politica britannica e russa: mentre l’Inghilterra dopo il 1835 allarga il diritto di voto avviando un processo di lenta democratizzazione che coinvolge in particolare gli ambienti urbani, l’Impero zarista accompagna la repressione dell’insurrezione polacca con una rapida involuzione autocratica destinata ad aggravarsi senza rotture sino alla sconfitta della guerra di Crimea (1856). Nella parte centrale dell’Europa sono invece le frequenti crisi di legittimità dinastica (Francia e Spagna prima di tutte), accanto al diffondersi del moderno costituzionalismo nazionale, a segnare il decennio del Vormärz. L’analisi attenta delle situazioni italiana e tedesca – forse tra le parti più riuscite del volume – mette in chiaro la crescente difficoltà delle dinastie nel comporre la paura della rivoluzione con la necessità di contenere gli eccessi reazionari.
Gli echi di un’altra rivoluzione, quella parigina di luglio, innestano nel contesto germanico una seconda ondata di riforme costituzionali; Hannover, Sachsen e Kurhessen, si pongono a fianco dei regni della prima «Konstitutionalisierungswelle» (Bayern, Baden, Württemberg, il granducato di Hessen-Darmstadt), che avevano mantenuto anche dopo il ritiro del dominio napoleonico una diarchia interna tra sovrano e parlamento. Molti altri stati appartenenti al Deutscher Bund non vengono toccati da queste trasformazioni: è il caso del più potente tra tutti, la Prussia, che mantiene ancora il suo carattere di vecchio Personenverbandstaat (cito da Monika Wienfort, Preußen, p. 963) tenuto assieme dal nesso personale con il sovrano, o dell’Impero austriaco, che nemmeno dopo la morte di Francesco I (1835) si decide ad abbandonare l’autoritarismo impersonale e burocratico con cui governa le sue province.
A questa ampia sacca di governi ostili a ogni cessione costituzionale appartengono le dinastie restaurate italiane (la loro vicenda è al centro dei saggi di Werner Daum, Die Königreiche Sardinien und beider Sizilien e di Francesca Sofia, Die mittelitalienischen Fürstentümer und der Kirchenstaat); può apparire curioso che l’unico accenno di «monarchia consultiva» nell’Italia resaturata sia rappresentato dalle Congregazioni provinciali del Lombardo-Veneto austriaco e che il principe Metternich si desse da fare nel proporlo come modello agli altri sovrani della penisola. Ma le incrinature al potere monarchico (tolta l’istituzione del Consiglio di Stato sabaudo nel 1831) restarono a un livello appena embrionale o non ci furono affatto. È all’opera tuttavia, dagli anni Quaranta, un sotterraneo movimento di critica ai riquadri costituzionali esistenti; si tratta dei flussi di opinione pubblica liberale che provano ad aggirare l’ostruzionismo dei vecchi regimi monarchici attraverso l’immagine della nazione. L’idea di una comunità di destino tedesca o italiana, per ora solo abbozzata in termini culturali, conta su un pubblico abbastanza ridotto e non ha nemmeno un bagaglio politico condiviso: democratici e federalisti italiani sono tanto lontani tra loro come i borghesi cittadini della Prussia renana dai Gutsbesitzer del Brandeburgo. Posizioni politiche che sembrano, sulla carta, poco conciliabili; nell’attesa però che la grande rivoluzione del 1848 serva per la prima volta ad avvicinarle.