Reviewer Giovanni Bernardini - FBK-ISIG e European University Institute
CitationVolendo riconoscere a priori un merito ai curatori della collana «Kritische Studien zur Geschichtswissenschaft», si può affermare che il volume qui preso in esame rappresenta innanzitutto un tributo non formale all’autore dei saggi raccolti, sotto il duplice profilo della pluralità di temi a cui Volker Berghahn ha dedicato le proprie ricerche, e delle innovazioni metodologiche e concettuali apportate. Sin dal 1998 Berghahn è docente di storia alla Columbia University, culmine di una carriera professionale caratterizzata dall’inseguimento quasi fisico di quel «trasferimento interculturale» tra Vecchio e Nuovo continente a cui egli ha dedicato buona parte del suo lavoro. Storico dell’economia per formazione, ha da tempo rigettato la riduzione della disciplina alla sua mera dimensione quantitativa, privilegiando piuttosto l’approfondimento delle dinamiche che hanno mutato la cultura degli attori economici tedeschi nel lungo periodo.
A questi due principali filoni di ricerca sono dedicate le tre parti in cui il libro è diviso, a loro volta composte di un totale di quindici saggi già editi e recuperati nella vasta produzione dell’autore. La prima parte ricostruisce tempi e modi con cui l’elemento ‘culturale’ si è fatto strada faticosamente nel dibattito storiografico sull’economia e sul mondo imprenditoriale tedesco, attraverso le fratture determinate essenzialmente dalle due guerre mondiali e dai conseguenti mutamenti di regime politico. Non mancano riferimenti ragionati a opere e autori che hanno ampliato la comprensione dei fenomeni economici (e dunque particolarmente preziosi per chi intenda avvicinarsi alla disciplina); tuttavia la novità risiede nel tentativo di tenere insieme sia gli sviluppi della cultura economica e imprenditoriale, sia la progressiva sensibilizzazione mostrata a tale riguardo dalla storiografia tedesca. Se dunque, secondo Berghahn, i cambiamenti del mondo economico tedesco sono frutto di ondate di ripetute fusioni tra tradizioni endogene e stimoli esterni, al contempo la storiografia ha progressivamente metabolizzato e messo a frutto una nuova nozione di ‘cultura’, ben più complessa e foriera di sviluppi metodologici rispetto a quella tradizionale (‘alta’). In breve: le dinamiche del trasferimento culturale che hanno coinvolto le élites economiche e imprenditoriali tedesche, alla ricerca di nuovi modelli da emulare soprattutto all’indomani della caduta del nazismo e del disastro bellico, non furono così dissimili da quelle che spinsero gli storici tedeschi (e gli scienziati sociali in generale) a recepire stimoli metodologici provenienti dall’esterno, indispensabili per rinnovare discipline fatalmente compromesse con il passato regime. Emblematico è il caso degli studi sugli effetti del Piano Marshall per l’economia tedesca (e quella europea in generale, sulla scia dei lavori di Alan Milwar): per anni gli storici hanno dibattuto dell’impatto quantitativo degli aiuti americani nel dopoguerra, giungendo in gran parte a ridimensionarne la portata; successivamente, la crescente considerazione dell’elemento culturale, anche per opera degli studiosi d’oltre Atlantico, ha consentito di rivalutare l’importanza dell’European Recovery Program in termini di trasferimento di tecniche, prassi e organizzazione in materia di produzione e di management foriero di grandi cambiamenti.
Il passo successivo conduce alla seconda parte, la più consistente del volume: il riconoscimento che l’evoluzione del sistema economico e industriale è stata segnata almeno dal 1945 da un forte processo di «americanizzazione». Un processo alla cui definizione concettuale e operativa Berghahn ha contribuito, rigettando ogni facile quanto fallace equiparazione a un’acquisizione in toto delle novità esperite oltre Atlantico; il suo recupero del concetto di «creolizzazione» (applicato da altri allo studio delle influenze intra-americane e nel Pacifico) lo spinge ad affermare che una commistione tra elementi indigeni e influenze esterne raramente ha raggiunto un equilibrio perfetto, presentando piuttosto una «colorazione» americana variabile a seconda dei casi e dei contesti. Ad esempio, le tecniche di organizzazione fordista della produzione avevano conosciuto una grande diffusione in Germania anche prima della cesura del ’45; mentre sotto il profilo delle relazioni tra capitale e lavoro sono stati piuttosto elementi autoctoni a prevalere, anche per le perduranti diversità tra le organizzazioni sindacali tedesche e quelle statunitensi. Tuttavia, Berghahn rifiuta anche di aderire al movimento storiografico tedesco più recente che vorrebbe definire il cambiamento culturale della Germania occidentale nel dopoguerra in termini di «occidentalizzazione», ovvero di definitivo abbandono di ogni pretesa di eccezionalismo e di adesione a una comunità di valori plasmata dal continuo trasferimento di idee tra le due sponde dell’Atlantico. A suo giudizio, e almeno per quanto concerne il trasferimento culturale in materia di economia, dopo il 1945 il flusso avrebbe di fatto conosciuto un’unica direzione da ovest verso est, o piuttosto un suo irradiamento dagli Stati Uniti verso tutti i paesi del mondo capitalista, con gradazioni diverse ma ben più sfumate rispetto alla mera dicotomia vincitori/sconfitti. Questo sarebbe dovuto essenzialmente a due ordini di ragioni, parzialmente sovrapposti: da un lato il successo indiscusso delle ‘novità’ provenienti dal Nuovo Mondo, manifestatosi già nel periodo tra le due guerre, che spinse molti attori economici e politici in Europa a tentare di replicarne alcuni elementi specifici; dall’altro il riconoscimento universale della posizione di potenza egemone in cui gli Stati Uniti si trovarono alla fine del conflitto, laddove l’egemonia è da intendersi nell’accezione gramsciata, ovvero in termini culturali piuttosto che coercitivi. Tale condizione di sostanziale superiorità materiale, rafforzata dal nascente confronto bipolare con l’Unione Sovietica, consentì agli Stati Uniti di riplasmare lo spazio economico globale, obbligando i partner minori a seguirli, ad esempio, in direzione di una più libera circolazione delle merci e del consumo di massa. Tuttavia, è a tale proposito che appaiono più evidenti i limiti dell’operazione editoriale: rispetto a un dibattito che dagli anni Novanta ha conosciuto un incremento esponenziale di contributi, e al quale Berghahn non si è certo sottratto, i saggi qui raccolti risalgono a un’epoca precedente, in alcuni casi persino a volumi editi alla metà degli anni Ottanta. Pur testimoniando dell’attitudine pionieristica con cui essi furono intrapresi all’epoca, e mantenendo dunque un interesse specifico notevole, resta il rimpianto per il mancato confronto e aggiornamento delle tesi esposte alla luce delle più recenti opere prodotte dalla storiografia tedesca in materia di trasferimento interculturale e circolazione delle idee durante la Guerra fredda. Basti pensare che il nome di Anselm Döring-Manteuffel, principale teorico e promotore degli studi sull’occidentalizzazione della cultura tedesca nel dopoguerra, con il quale Berghahn intrattiene un proficuo dialogo scientifico a distanza sin dalla fine degli anni Novanta, compare qui soltanto in un’occasione.
Infine, la terza parte del volume recupera i temi a cui si è interessata l’indagine scientifica più recente di Berghahn, ovvero gli agenti e i meccanismi attraverso cui il processo di trasmissione culturale dagli Stati Uniti alla Germania ha avuto luogo nel secondo dopoguerra, non soltanto in materia di economia ma più in generale di cultura politica sia a livello d’élite che di massa. In questo caso, l’autore si avvale di una grande quantità di fonti dirette, in gran parte ancora inesplorate, che provengono non tanto da agenzie governative, quanto dalle numerose fondazioni filantropiche che si affiancarono alle prime in una duplice strategia. Oltre al consolidamento del «fronte di Guerra fredda» rispetto alla sfida ideologica con l’Unione Sovietica, la politica delle fondazioni mirava a promuovere in Europa la cultura e la scienza prodotte dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di superare le riserve che molte élites locali nutrivano verso questi ultimi (anche quelle più impegnate nell’ottenere il supporto materiale e la difesa militare di Washington), e promuovere così una più sincera collaborazione e integrazione dell’area Atlantica. Nello specifico, Berghahn ha preso in esame il modus operandi della Fondazione Ford, vera ‘potenza’ in materia, e soprattutto la biografia di Shepard Stone, che della Fondazione fu a lungo direttore per i programmi internazionali. Mentre lo studio delle iniziative intraprese in Europa orientale dalla Fondazione Ford durante e dopo la crisi del 1956 ungherese apre spunti per ulteriori ricerche nel campo della Guerra fredda culturale, l’analisi delle attività promosse da Stone consente di comprendere le modalità con cui videro la luce numerosi network transatlantici di confronto e collaborazione tra élites politiche delle due sponde dell’Atlantico. Sul grado di successo di questi ultimi nella creazione di una reale ‘comunità culturale’ transatlantica, Berghahn sembra voler sospendere il giudizio, non rinunciando però a riproporre l’interrogativo come stimolo per la prosecuzione di altre ricerche in questa direzione.
Nel complesso, il volume risulta talvolta di non facile lettura: accanto ai difetti già evidenziati, è il caso di segnalare come la diversa origine dei saggi raccolti (alcuni pensati come contributi isolati, altri espunti da opere monografiche) contribuisca a dare l’impressione di un lavoro non sufficiente ad esaurire le molte, cruciali questioni sollevate. Tuttavia, il libro costituisce un’introduzione indispensabile a un campo di studi attualmente tra i più fiorenti, e a un autore che ha contribuito in Germania e non solo al rinnovamento della storiografia delle relazioni transatlantiche.