Reviewer Marco Mondini - Università di Padova- Isig
CitationLa storia culturale di guerra, in particolar modo la storia della mobilitazione culturale durante la Prima guerra mondiale, è stata negli ultimi vent’anni uno dei filoni di ricerca più innovativi e stimolanti degli studi sul Novecento europeo, e con tutta probabilità uno dei più controversi. L’importante dibattito sviluppatosi attorno alla lettura culturale del 1914-1918 offerta dalla cosiddetta «Scuola di Peronne» è stato però, in larga parte, franco-anglocentrico, con apporti limitati per la maggior parte delle altre storiografie nazionali. In particolare, pur senza potersi paragonare allo scarso apporto degli italiani, la storiografia di lingua tedesca è rimasta relativamente ai margini di questo originale paradigma, o, meglio, poco visibile (soprattutto agli occhi del pubblico non tedesco). Una marginalità bizzarra visto il ruolo pionieristico di George Mosse, che dell’Historial di Peronne fu anche fondatore, l’indiscutibile contributo di altri esperti, come Gerd Krumeich, Michael Jeismann, Gerhard Hirschfeld o Ute Frevert, e una tradizione di storia del rapporto tra intellettuali e guerra che aveva trovato in Wolfgang Mommsen – curatore di Kultur und Krieg. Die Rolle der Intellektuellen, Künstler und Schriftsteller im ersten Weltkrieg, 1996 – un indagatore raffinato. Per non parlare dello stimolo alle ricerche sui quadri sociali della memoria collettiva del conflitto tra XIX e XX secolo proveniente negli anni Novanta dalla storiografia tedesca: si pensi al volume curato da Reinhart Koselleck e Michael Jeismann Der politiche Totenkult del 1994, una delle pietre miliari, insieme ai lavori di Jay Winter, per questi studi. Un fondamentale testo sul rinnovamento della storia militare, curato nel 2000 da Thomas Kühne e Benjamin Ziemann (Was ist Militärgeschichte?) menzionava già la Kulturgeschichte tra i possibili sviluppi di una Totalgeschichte della guerra, anche se non mancava di registrare i possibili attriti (puntualmente in atto nel caso italiano) tra una storia militare fin lì declinata come storia sociale ed economica e le prospettive di una storia culturale della violenza (A. Lipp, Militärgeschichte als Kulturgeschichte, pp. 211-227).
Questo nuovo volume, curato da Arnd Bauerkämper, Elise Julien e (limitatamente ad una prima fase di progettazione) da Jacob Vogel, rappresenta un’ottima occasione dunque non solo per fare il punto sullo stato degli studi in tema delle mobilitazioni del 1914-1918, ma anche per porre correttamente in luce il ruolo della storiografia tedesca nello sviluppo della storia culturale di guerra. Questo, benché il volume non sia esclusivamente composto di saggi scritti da storici tedeschi, né venga, fin da principio ed esplicitamente, dedicato alla storia culturale di guerra. In effetti, il testo, il cui progetto iniziale risale ad un convegno internazionale su «Europa im Ersten Weltkrieg: Neuere Fragestellungen und Erklärungen», svoltosi al Berliner Kolleg für Vergliechende Geschichte Europas nel giugno 2007, è presentato con un titolo che promette meno di quanto poi si possa ritrovare al suo interno: «guerra e società» è un’indicazione che potrebbe rinviare ad altre parabole di studi sulla mobilitazione. Al contrario, l’introduzione dei curatori (Kriegskulturen und Handlungspraktiken im Ersten Weltkrieg) è molto chiara su quali siano gli snodi storiografici attorno a cui si articola la discussione: la «cultura di guerra» ovvero, in primo luogo, il problema del consenso al conflitto moderno, base della capacità dei paesi impegnati di resistere agli inusitati sforzi che la mobilitazione totale richiese, sia in termini di sacrificio di vite umane, sia sotto il profilo della militarizzazione degli apparati economici e delle strutture sociali (pp. 7-8). Come viene molto correttamente messo in luce, il concetto di «Kriegskultur - culture de guerre - cultura di guerra» non è una categoria neutra. Così come è stata concepita e articolata all’interno del gruppo di storici dell’Historial di Peronne, essa sottintende una mobilitazione che non si limita alla propaganda, cioè a una leva culturale organizzata dal potere dello Stato o dall’autorità militare e funzionale a massimizzare l’adesione dell’opinione pubblica allo sforzo militare. Al contrario, il paradigma della «mobilitazione culturale» fa riferimento a un processo orizzontale, in larga parte spontaneo o autoalimentato, alimentato da una serie di attori del campo culturale (insegnanti, maestri elementari, parroci o pastori, pubblicisti, scrittori, scienziati) che non necessariamente sono alle dipendenze del potere, anche tenendo conto del fatto che una vera e propria mobilitazione degli intellettuali sarà organizzata in molti paesi solo dopo l’intervento, e in alcuni casi, come l’Italia, solo dopo il 1917. L’indagine di tale mobilitazione pone al suo centro il problema del consenso/rifiuto della violenza del conflitto moderno, criticando come pregiudiziale la convinzione, ampiamente diffusa soprattutto dopo gli anni Sessanta, che il soldato, attore in prima persona della violenza sul campo di battaglia, fosse solo vittima e mai dispensatore di morte; un preconcetto dovuto, in Francia, alla cosiddetta «dittatura dei testimoni» e ripreso largamente in Italia dalla «storiografia del dissenso». A proposito di tali snodi concettuali, Durchhalten offre un ampio e dettagliato panorama critico. Nella prima sezione, dedicata alla questione del dibattito (particolarmente acceso, soprattutto all’interno dell’Università francese) tra sostenitori del consenso e, al loro opposto, partigiani della coercizione, si confrontano il saggio a quattro mani di Gerhard Hirschfeld e Gerd Krumeich Wozu eine Kulturgeschichte des Ersten Weltkriegs? (pp. 31-53) e di Nicolas Offenstadt Der Erste Weltkrieg im Spiegel des Gegenwart. Fragestellungen, Debatten, Forschungsätze (pp. 54-77). Si tratta di due prospettive dal taglio critico molto diverso. Hirschfeld e Krumeich ripercorrono il percorso dell’interpretazione kriegskulturell di Peronne dai suoi esordi (il volume del 1994 Guerres et cultures) sottolineando come il cultural turn degli studi di guerra abbia permesso di esercitare sul primo conflitto mondiale uno sguardo più critico e analitico, valendosi di categorie quali «brutalizzazione» e «mobilitazione totale». Offestandt, che afferisce al CRID, il collettivo di studi sulla Grande guerra che si oppone alla prospettiva culturalista di Peronne soprattutto sul dibattuto tema del reale consenso dei soldati alla guerra, offre nel suo contributo una visione polemica a proposito delle implicazioni della categoria di mobilitazione culturale, soprattutto in opposizione al volume del 2000 di Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker Retrouver la guerre, considerato il manifesto della «scuola del consenso». Già solo per questi due saggi, che riassumono bene i termini del principale dibattito odierno sul 1914-1918 – e, in generale, sulla guerra del Novecento –, questo volume meriterebbe di essere letto e utilizzato. Ma le sue pagine offrono molto di più di quanto si possa riassumere in una breve recensione: le quattro sezioni in cui si suddivide raccolgono infatti interventi che affrontano la questione della mobilitazione culturale nei paesi coinvolti dalla guerra di posizione sul fronte occidentale (In der ‘Knochenmühle’ der Westfront, pp. 81-150), su quello italiano, balcanico e russo (Das andere Durchhalten, pp. 151-216) e fuori dall’Europa, negli Stati Uniti, in Africa e nell’Impero Ottomano (Kriegskulturen jesnseits der Grenzen Europas, pp. 217-280). Mi limito a segnalare qui il bel saggio di Oliver Janz a proposito degli studi prodotti in Italia sulla Grande guerra «tra consenso e dissenso» (Zwischen Konsens und Dissens. Zur Historiographie des Ersten Weltkriegs in Italien), una delle migliori mappe storiografiche disponibili a proposito della mancanza di apertura internazionale (con poche eccezioni) degli storici italiani. Come viene messo bene in evidenza, la persistenza di sostanziali pregiudiziali di tipo ideologico ha portato il «paradigma del dissenso» a egemonizzare la narrazione del primo conflitto mondiale fino ad anni molto recenti, impedendo un vero rinnovamento delle prospettive di ricerca. Un limite peraltro ampiamente messo in evidenza dall’edizione italiana dell’Encyclopedie de la Grande Guerre del 2004, adattata nel 2007 a cura di G. Gibelli per l’editore Einaudi senza aver pensato di inserirvi gli studi più recenti degli studiosi di guerra più sensibili alle sollecitazioni della storia culturale.