VII, 2024/1

Carlo Tosco, Gabriella Bonini (eds.)

Il paesaggio agrario italiano

Review by: Roberto Leggero

Editors: Carlo Tosco, Gabriella Bonini
Title: Il paesaggio agrario italiano. Sessant’anni di trasformazioni da Emilio Sereni a oggi (1961-2021)
Place: Roma
Publisher: Viella
Year: 2023
ISBN: 9791254692950
URL: link to the title

Reviewer Roberto Leggero - Università della Svizzera italiana

Citation
R. Leggero, review of Carlo Tosco, Gabriella Bonini (eds.), Il paesaggio agrario italiano. Sessant’anni di trasformazioni da Emilio Sereni a oggi (1961-2021), Roma, Viella, 2023, in: ARO, VII, 2024, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2024/1/il-paesaggio-agrario-italiano-roberto-leggero/

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Affrontare la lettura e, soprattutto, l'analisi critica di un volume di più di 700 pagine a cui hanno collaborato 84 autrici e autori non è stato facile per chi scrive queste note. Soprattutto perché sono solo tre gli storici "puri" (genere al quale chi scrive è convinto di appartenere) che hanno partecipato alla stesura del volume. Ovviamente, per un testo che intende valutare le trasformazioni del paesaggio agrario italiano nel periodo trascorso tra la pubblicazione del saggio di Emilio Sereni (Storia del paesaggio agrario italiano, 1961) e oggi, può non essere sorprendente trovare una così scarsa componente storica, compensata, peraltro, dalla presenza di archeologi e archeologhe e di storici e storiche dell'architettura e dell'economia.

Il volume è il risultato di un convegno organizzato dal benemerito Istituto Alcide Cervi di Gattatico e la sua impostazione si radica in quell'evento. Si tratta di un testo dal quale gli studiosi e le studiose del paesaggio non potranno prescindere e che si candida a divenire un classico in questo campo. Ai due curatori, Carlo Tosco (Storia dell'Architettura, Politecnico di Torino) e Gabriella Bonini (Archivio E. Sereni), è affidata la Presentazione del volume. Le parti che lo compongono sono tre. La prima, intitolata Studi e ricerche, è introdotta da un testo di Tosco il quale inquadra opportunamente la figura di Sereni nella sua dimensione storica e politica rilevando gli elementi presenti nel suo pensiero di intelligente ortodossia (il paesaggio riportato alla sua radice sociale ed economica, alla sua struttura) e di innovazione politica (coinvolgere le forze più dinamiche del mondo contadino). Segue un interessante ricordo dello studioso scritto dalla figlia Anna e una serie di riflessioni sulla ricezione di Sereni all'estero (Gutiérrez), sui suoi rapporti con l'archeologia e le fonti (Cambi; Biagioli) e su aspetti specifici della sua opera (Tempesta; Barbera).

La seconda parte è intitolata Le trasformazioni del paesaggio agrario da Sereni a oggi e si suddivide in due sezioni: Italia settentrionale e centrale, che comprende la presentazione di Emiro Endrighi (Sviluppo rurale, Univ. di Modena e Reggio Emilia) seguita da 12 saggi, e Italia meridionale e insulare, con 14 contributi preceduti dalla presentazione di Saverio Russo (Storia moderna, Univ. di Foggia). Endrighi definisce i temi della sezione secondo vari criteri: l'ampio territorio preso in considerazione, la connotazione evolutiva del paesaggio che può essere di natura trasformativa o di «tendenziale permanenza», il tipo di approccio dei contributi che ha caratteristiche propositive e progettuali o di descrizione e denuncia. Emerge così uno spaccato che «nella sua articolazione e nell'integrazione con [...] [le] altre sezioni si propone come un ideale proseguimento e aggiornamento del testo di [...] Sereni» (Endrighi, p. 187). Per quanto riguarda Russo, egli sottolinea come la sezione sviluppi i temi complessi della pianificazione e delle dinamiche economico-sociali che investono i territori (Russo, p. 321) cogliendo in ciò la validità del testo di Sereni che «continua a interrogarci e a suggerire riflessioni [...] dal problema dell'equilibro tra conservazione e cambiamento, alla pianificazione e alla capacità operativa dei piani, al governo dei processi di trasformazione al tema del recupero dei paesaggi degradati o in abbandono, alla multifunzionalità» (Russo, p. 323).

Anche la terza parte Fonti e metodi per la storia del paesaggio si suddivide in due sezioni, la prima dedicata a Archeologia, geostoria e patrimonio intangibile e la seconda Sistemazioni agrarie, tradizione e sviluppo. La prima sezione viene introdotta da Anna Sereni (Archeologia, Univ. di Enna "Kore") e la seconda da Mario Agnoletti (Cattedra UNESCO, Univ. di Firenze). Anna Sereni insiste sull'importanza della interdisciplinarità posta in evidenza dai contributi della sezione ma ancora poco praticata. Ciò è grave soprattutto perché essa fornisce non solo «informazioni generali» ma dati che devono essere utilizzati dalla politica a vari livelli per decidere il destino dei territori (Sereni, p. 481). Infine, Agnoletti nella sua presentazione muove una critica, per molti versi giustificata, all'utilizzo pressoché esclusivo di fonti documentarie per lo studio del paesaggio che, in diversi luoghi, conserva "forme" caratterizzate da una «persistenza storica plurisecolare, legata a funzioni biologiche e produttive più o meno immutate, caratterizzate da una lenta evoluzione» (Agnoletti, p. 611).

La complessa struttura del volume ricalca la molteplicità e la varietà dei suoi contenuti e dell'oggetto che si vuole indagare, che non è solo l'opera di Sereni ma il paesaggio contemporaneo in una prospettiva dinamica. Come suggeriscono i due curatori del volume, il volume del 1961 nasceva in una fase di crisi del modello italiano di capitalismo nelle campagne. La riflessione è importante per più ragioni: da un lato ricorda la situazione in cui Sereni aveva lavorato, in prossimità dell'abbandono e dello spopolamento dei paesaggi agrari di cui scriveva ma, d'altro canto, in tutto il volume si legge la differenza tra quella situazione e l'attuale crisi climatica. Le coppie oppositive distruzione/rigenerazione (Baricchi), permanenze/trasformazioni (Laviscio; Ricci), specializzazione/abbandono (Seardo), innovazione/obsolescenza (Agulli), presenti soprattutto nella seconda parte del volume ci parlano di problemi che superano quelli che le campagne italiane hanno dovuto affrontare nel passato, e che riguardano la transizione ecosistemica del XXI secolo (Marchetti) e la climate-resilient di un paesaggio-laboratorio (Raffa). Del resto, è Sereni che ci spiega come il paesaggio agrario sia la forma che il lavoro umano dà al paesaggio naturale e giustamente il saggio di Sereni si concentra su di esso. Ma oggi il paesaggio naturale muta di per sé (Pidalà, p. 590, n. 15), che l'uomo lo voglia o no, sulla spinta del mutamento climatico e il lavoro che sarebbe necessario a contrastare tale mutazione non può essere agito (solo) da chi in quel paesaggio lavora bensì da forze che risiedono altrove. Certo, si potrebbe pensare che, in fondo, le forme della proprietà, in quanto immagini di egemonie sociali, e le strutture del potere abbiano sempre operato al di là dei luoghi in cui la terra veniva materialmente coltivata (Gutiérrez, p. 67). Eppure, in quel mondo che ci appare lontano, il lavoro dell'essere umano era la condizione imprescindibile per agire, ed esso era collocato laddove le sementi venivano gettate, i boschi arroncati, le messi raccolte. Oggi, invece chi sta sul territorio - inteso nella sua accezione più semplice ma per sua stessa essenza politica - ha poche possibilità di agire per contrastare i cambiamenti climatici che ci sovrastano se non proteggendo ciò che c'è, finché c'è. O finché quel lavoro che si dovrebbe svolgere altrove non modificherà la situazione.

Per questo appare sorprendente, in un volume così complesso, articolato, raffinato e innovativo, notare anche una certa insofferenza circa la saldatura tra ambientalismo e tutela dei beni culturali, la quale avrebbe cancellato la consapevolezza che il mondo rurale sia anche il luogo del lavoro e della produzione (Agnoletti, p. 126). Ma questo è vero fino a un certo punto, come dimostrano il successo delle produzioni DOC, DOP e i riconoscimenti internazionali ai "paesaggi della produzione" che, per le loro stesse caratteristiche, comunicano a una larga parte della pubblica opinione il legame tra la dimensione paesaggistica, produttiva e culturale (e che il lettore ritrova anche nel volume Donatello e Moiso; Lanzoni). Casomai, è vero che spesso le persone che vivono in ambienti rurali o ibridi (rurbani), devono confrontarsi con espansioni urbane (Ludovisi, p. 666) o progetti speculativi che pretendono di insediarsi sul territorio con approcci industriali. Spesso tali progetti sono promossi da S.r.l. dotate di capitali minimi, finanziamenti abbondanti e atteggiamenti padronali sia che pretendano di realizzare impianti di pirolisi, di estendere porcilaie di migliaia di capi, di impiantare serre (Agulli, p. 329), di "valorizzare" il territorio attraverso la logistica, o nelle località di maggiore pregio, stabilimenti turistici e così via (De Santi e Rossi, p. 559; si veda anche Falconi, p. 488 ss. sul ruolo di pratiche agricole non sostenibili). Non è l'espandersi di una cultura alto borghese (alla quale chi scrive non appartiene e non vuole difendere) di stampo ambientalista che ha reciso il legame con la terra, il territorio, il paesaggio e il lavoro. Basta sfogliare il rapporto ISPRA 2023 che illustra nel dettaglio l'enorme distruzione di suolo in Italia, per rendersi conto da dove viene e da chi dipende la reazione dei comitati spontanei che sorgono a difesa della natura, certo, ma anche a difesa della relazione tra la vita e il paesaggio (ma si vedano nel volume le posizioni critiche di Di Mario, p. 404 che valuta negativamente le analisi ISPRA contestando le definizioni di copertura permanente e reversibile; al contrario Falconi, p. 413). Essere consci di tale correlazione significa recuperare una consapevolezza antica che è anche la prima e più importante forma di comprensione del valore economico del paesaggio. Se vogliamo trovare un'assenza in questo complesso, maestoso e importante volume è la nozione che, a partire dagli anni Sessanta, le mafie si sono estese nel Paese penetrando profondamente nella sua economia e portando ovunque una mentalità predatoria e distruttiva del paesaggio, del territorio e del suolo. Le innumerevoli "terre dei fuochi" di cui è cosparsa la Penisola lo testimoniano.

Nel volume, il contributo sui paesaggi serricoli mediterranei di Beatrice Agulli (pp. 325-333) che denuncia le condizioni di schiavitù nelle quali vivono i lavoratori immigrati dimostra una chiara consapevolezza del problema, pur non nominando mai direttamente le mafie (sul tema delle mafie nel ciclo del pomodoro si veda la circostanziata inchiesta di P. Borrometi, Un morto ogni tanto, Solferino, Milano, 2018). Se è vero, com'è vero, che è impossibile spiegare il sistema del paesaggio leggendo separatamente le sue componenti (Scazzosi cit. da Branduini e Varotto, p. 495), allora è indispensabile considerare il potente fattore di trasformazione ambientale e paesaggistica rappresentato dagli investimenti mafiosi nel ciclo del cemento, in quello dei rifiuti e in ogni speculazione che impatta sui suoli e sui paesaggi. Si può senz'altro sostenere che i valori culturali del paesaggio siano il prodotto della storia e non dei «pochi decenni», a partire dagli anni Sessanta, nel corso dei quali la società ha mutato i suoi punti di riferimento (Agnoletti, p. 128) ma, se questi pochi decenni hanno costruito una diversa mentalità e favorito l'interramento di enormi masse di rifiuti tossici che estinguono i servizi ecosistemici forniti dal suolo, allora un problema si pone. E non è anche questo un fenomeno storico che, come tutti i fenomeni storici, impatta sulla società e i luoghi e i paesaggi in cui essa vive? E se la trasformazione non è reversibile – a volte neppure attraverso ingenti investimenti di bonifica – a quale futuro dovremmo rivolgere lo sguardo corrucciato? A quello in cui la «naturalità» ha soppiantato la matrice culturale del paesaggio come «valore della nazione» (fortunatamente con la "n" minuscola), oppure a un futuro in cui le prospezioni scientifiche guidate dalle indagini di polizia perimetreranno le aree sulle quali sarà pericoloso coltivare, abitare, vivere?

Perciò, chi scrive pensa che proteggere i paesaggi, nel loro significato complesso di contenitori-espositori e prodotti della storia e del lavoro umano, implichi proteggere il suolo. Quest'ultimo, nei 30 centimetri della vangata, con la sua complessità biologica naturale, è una struttura che fornisce servizi ecosistemici all'essere umano anche in assenza di pratiche agricole. Si potrebbe dire che il suolo sia un paesaggio in sé, una trama complessa che va considerata nelle sue caratteristiche costitutive per la vita e per i paesaggi che su di esso si fondano i quali, nonostante tutto il lavoro e le azioni umane che possono svolgersi a favore o contro di essi, non possono andare al di là dei suoli che li sostengono.

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